L’hotel a mezza stella per rifugiati, simbolo dell’Australia crudele
Altro che Djoko Una volta il Park Hotel di Melbourne aveva un ché di ambizioso, sicuramente di confortevole: c’erano anche dei campi da tennis. Aveva una sua clientela internazionale. La clientela internazionale è rimasta, anche se si tratta di clienti coatti
Altro che Djoko Una volta il Park Hotel di Melbourne aveva un ché di ambizioso, sicuramente di confortevole: c’erano anche dei campi da tennis. Aveva una sua clientela internazionale. La clientela internazionale è rimasta, anche se si tratta di clienti coatti
Una volta il Park Hotel di Melbourne aveva un ché di ambizioso, sicuramente di confortevole: c’erano anche dei campi da tennis. Aveva una sua clientela internazionale. La clientela internazionale è rimasta, anche se si tratta di clienti coatti. Sono richiedenti asilo e rifugiati, detenuti illegalmente in alcuni casi da nove anni.
Lì, al Park Hotel, c’è capitato per un bizzarro incrocio tra sport e diritti umani anche Novak Djokovic, il numero uno del tennis.
C’è rimasto poco, ha vinto un ricorso contro la valutazione delle autorità che il suo visto d’ingresso fosse irregolare e poi – anche se, mentre scrivo, la saga continua – ne è uscito, cosa che lo ha sicuramente distinto dagli altri «ospiti».
Il Park Hotel è uno degli oltre 1.400 «centri alternativi di detenzione» allestiti dal governo australiano in aperto ossequio alle sue crudeli politiche in tema d’immigrazione.
L’Australia è considerata l’apripista delle cosiddette politiche di «esternalizzazione». Si stabilisce che nessuno può fare ingresso irregolare nel paese, lo si blocca quando si avvicina via mare alle coste e lo si trasferisce altrove: nel caso specifico, su remote isole dell’Oceania, quelle di Manus (appartenente a Papua Nuova Guinea) e lo stato indipendente di Nauru, lautamente remunerate.
La politica di «esternalizzazione» ha fatto scuola e altrove è stata persino perfezionata: oggi si pagano i paesi di transito per non far partire, come nel caso degli accordi tra Unione europea e Turchia del 2016 e dell’Italia con la Libia del 2017.
Per essere più precisi, l’Italia paga (in forniture di motovedette) anche i guardacoste libici per andare a riprendere in mezzo al mare le persone che in tutti i modi cercano di scappare dai famigerati centri di tortura della terraferma.
Ma torniamo all’Australia.
Si calcola che dal 2012 oltre 4000 uomini, donne e bambini siano stati trasportati nei centri di detenzione di Manus e Nauru.
Provenivano da Iraq, Iran, Afghanistan, Sri Lanka, Myanmar e da altri luoghi di guerra e di persecuzione. Altri 40 bambini sono nati lì, in quegli inferni. In molti hanno tentato il suicidio, moltissimi sono impazziti. In quelle due minuscole isole c’era la più grande concentrazione di malattia mentale al mondo.
Dopo le denunce delle Nazioni Unite e delle organizzazioni per i diritti umani, dopo il clamore suscitato dal libro del blogger curdo-iraniano Behrouz Boochani “Nessun amico se non le montagne”, pubblicato in Italia ormai due anni fa, nel 2018 da Add Editore, il centro di Manus è stato chiuso e i detenuti sono stati lasciati abbandonati a sé stessi a Port Moresby, capitale di Papua Nuova Guinea. Alla fine del 2021 122 erano ancora lì. Altri sono stati reinsediati in paesi terzi.
A Nauru ne restano ancora 102 nonostante lo scandalo provocato dai “Nauru papers”, oltre 2000 documenti riservati divenuti pubblici che danno un terribile
resoconto delle violenze subite dai richiedenti asilo minorenni nel centro di detenzione.
I «centri alternativi» hanno semplicemente trasformato la detenzione da “offshore” a “onshore” per coloro le cui condizioni di salute non consentivano più di stare a marcire sulle isole.
Nel Park Hotel, dove come avrete capito alla fine ci stanno quelli cui paradossalmente è andata meno peggio, sono transitate centinaia di persone.
Ogni tanto qualcuna viene rilasciata, senza una spiegazione né scuse.
Sempre senza una spiegazione, in quell’albergo a mezza stella ne restano ancora 40: la clientela internazionale della disperazione e dell’ingiustizia.
È dal 2013 che la Nuova Zelanda si è dichiarata disponibile ad accogliere quei «clienti».
Ma uno dei corollari di queste politiche crudeli è di rifiutare anche soluzioni del genere.
* portavoce di Amnesty International Italia
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