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L’horror secondo Peele

L’horror secondo Peele

Intervista Jordan Peele parla del suo ultimo film "Us" in uscita nelle nostre sal eil 4 aprile

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 marzo 2019
Luca CeladaLOS ANGELES

Jordan Peele trova la fama mondiale con Scappa- Get Out l’horror dal sottotesto razziale che gli vale l’Oscar alla sceneggiatura e il plauso unanime dei critici. Ma arriva al cinema dalla esperienza televisiva, come parte del duo comico Key & Peele (con Keegan-Michael Key). La striscia di mezz’ora va in onda su Comedy Central durante il secondo mandato Obama, e fra le centinaia di sketch rimane indimenticabile la perfetta imitazione del presidente che Peele trasforma in studente universitario saputello e perennemente fatto di canne. La loro comedy di commento sociale discende da antecedenti come Richard Pryor e David Chappelle. Peele e Key però, entrambi biracial – di madre bianca e padri afroamericani – incarnano appieno il momento e sono catapultati nello zeitgeist millennial e «post-razziale» dell’era Obama. I loro sketch si sviluppano attorno ad un fulcro di mediazione culturale e di provocazione politicamente scorretta nel momento in cui le questioni identitarie sembrano svilupparsi progressivamente, almeno nelle nuove generazioni. Rispetto al benevolo pungolamento degli sketch, il film d’esordio di Peele assume connotati decisamente più cupi, come si conviene al momento di recrudescenza eugenetica trumpista. Black Panther e Get Out rappresentano i due principali momenti di catarsi culturale afroamericana dello scorso anno. Per Peele rappresenta anche l’approdo al cinema di denuncia più netta e un nuovo attivismo artistico (subito dopo sarà produttore esecutivo di BlacKKKlansman per il quale assumerà Spike Lee). Con Noi-Us torna a scardinare le regole dell’horror metaforico, a partire dai membri della famiglia borghese afroamericana, nei panni dei privilegiati incoscienti braccati da sosia diseredati – le persone cancellate sul cui martirio è stato costruito il privilegio americano. Un modo per riprendere – nel mezzo della singolarità nazional populista – il discorso non solo su razza ma anche su classe, genocidio e xenofobia.
Peele è anche produttore esecutivo del prossimo «reboot» di Ai confini della realtà – la serie fantascientifica cult di Rod Serling che durante la guerra fredda ha minato le paranoie dell’inconscio americano.
Da dove proviene l’idea di base per «Us»?
Il nocciolo dell’idea deriva dalla mia paura dei doppelganger, degli alter ego, sin da ragazzo ho avuto una visione ricorrente – l’immagine di intravedere me stesso sul binario di fronte della metropolitana, un’idea che mi fa rabbrividire nel profondo. Pensandoci meglio, nella produzione del film mi sono reso conto che l’esistenza di una famiglia doppione apriva la porta a tutta una serie di possibilità per creare una storia inedita.
Come per «Get Out» anche qui è ineluttabile la questione razziale?
L’idea è di ampliare i margini della visibilità anche ai film di genere, che sia in modo complesso come in Get Out o più diretto, come nel caso di questo film, dove l’idea è semplicemente: vediamo cosa succede se al centro di un film dell’orrore c’è una famiglia nera. Come mai quel film non l’abbiamo ancora visto? Perché non abbiamo visto un uomo nero comprare una barca per la sua famiglia? È una cosa che succede. E l’effetto di questo azzeramento della rappresentazione produce ripercussioni culturali concrete sulla comunità afroamericana e plasma la percezione di quello che agli afroamericani è consentito di essere, nel cinema e nella vita. L’obiettivo è che la gente si diverta durante la visione. E che poi trovi molto da discutere dopo.
Discutere di cosa in questo caso?
Il film parla dei nostri fantasmi collettivi. Qual è l’ombra del «noi», dell’«us»? Il punto di partenza è la constatazione della dualità degli Stati Uniti. Ho iniziato il film con immagini del lato solare di questa nazione – la speranza e il privilegio – per poi sovvertire il messaggio di questa mitologia dell’America buona. I privilegi di cui tutti noi americani godiamo sono stati costruiti sulle atrocità e sulle schiene della gente che ha sofferto e continua a soffrire per far sì che noi continuiamo ad averli. Eppure questo è un paese che punta costantemente il dito verso gli altri, non è una prerogativa unicamente americana ma è questa l’ambiguità che conosco. Ecco l’immagine di Hands Across America ad esempio, la charity organizzata negli anni Ottanta (una raccolta di fondi per i poveri che prevedeva una catena umana che attraversava il paese, ndr). Anche questa la trovo ambigua, faceva passare l’idea che se solo ci fossimo tutti presi per mano avremmo potuto porre fine alla fame. Un’idea che trovo spaventosa per come travisa un problema complesso e anzi permette di fingere di averlo risolto.
Tutto in un involucro dell’«orrore». Perché questo genere?
L’horror è il mio genere preferito perché trovo che la paura sia una delle emozioni più forti oltre che la maggiore causa dei soprusi nel mondo, dato che ti porta ad ignorare e sopprimere le cose che non capisci, a trasferire la colpa. Siamo programmati per evitare la paura a tutti i costi e specificamente la paura di noi stessi. Quindi credo che nella narrazione sia uno strumento sottovalutato perché è il più efficace. Un horror mi tocca visceralmente, più di qualunque altro genere. Nei miei horror preferiti, quelli che fanno più paura, spesso alla fine rimangono delle domande senza risposta. In realtà credo che horror e commedia siano strettamente imparentati, hanno la stessa idea di ritmo e di tempismo, di trasmettere delle verità, anche se in modo molto diverso.
Lei è passato dall’una all’altro…
L’horror e la regia sono state mie passioni da quando ero giovane, da quando ero adolescente. E credo che ero così appassionato che ci ho messo un po’ per tentare: non volevo fallire, non avrei sopportato di aver fatto un film che non mi piaceva. Così mi sono buttato nella commedia che amavo e che dava soddisfazioni più immediate – ti guadagni la risata, oppure no, e vai avanti. Ma i miei eroi rimanevano Tim Burton, Stanley Kubrick, Steven Spielberg, Spike Lee, John Carpenter, Roman Polanski. Rosemary’s Baby resta per me uno dei migliori film di sempre. Circa otto anni fa ho preso la decisione di cominciare a preparare una transizione. Per molti anni la gente non capiva, mi diceva «…ma come? Hai una ottima carriera di comico…». Ho perfino perso agenti che non riuscivano a capirmi. Ma ho continuato a cercare di spiegare che sentivo di aver qualcosa da dire nel genere horror e volevo muovermi in quella direzione. Il risultato va oltre le più rosee previsioni.
Quest’anno ha anche lavorato su «BlackKKKlansman» e «Twilight Zone» – una fiction televisiva…
Per anni mi hanno detto che la tv mi avrebbe marcito il cervello e forse è stato così, ma per me è stata anche il canale per conoscere tanti programmi e realtà e fantasie, e credo in definitiva per conoscere meglio l’umanità. Facendo di mestiere l’improvvisatore comico, impari da subito ad ascoltare, che ascoltare è più importante di parlare. E io per anni ho incamerato quello che vedevo, e i miei film ne sono il prodotto.
BlacKKKlansman che ha prodotto ha finalmente fruttato un Oscar a Spike Lee. Cosa pensa di lui.
È un regista che ha cambiato la cultura perché è un provocatore artistico, perché si addentra su terreni in cui nessuno si era avventurato prima. Il suo impatto sul nostro mondo è immenso e sono certo che per lui i premi siano semplicemente una ciliegina sulla torta. In tutta sincerità i premi fanno piacere, sono importanti anche per me, ma quando ha vinto lui ho pianto perché era così palesemente in ritardo. Ma sono certo che abbia ancora molti film dentro di lui e ci sarà tempo per altri premi. Ad ogni modo il fatto che non abbia vinto con molti film che avrebbero meritato non toglie nulla al contributo che ha dato al cinema.
Perché proprio «Ai confini della realtà»?
Certo è una prospettiva preoccupante misurarsi con uno dei massimi autori di sempre: Rod Serling. Ma nell’ ultimo paio di anni ho sentito gente attorno a me dire di continuo: «Mi sembra di essere entrato nella twilight zone», e mi è sembrato di capire che in fondo anche Serling raccontava quelle storie per una ragione. Forse il mondo ha bisogno di nuove parabole, abbiamo bisogno di più allegorie per decifrare questo presente. Spesso le idee passano meglio quando sono racchiuse nei cavalli di Troia che chiamiamo «storie». Ai confini della realtà rimane credo il programma più importante di sempre per me, spero solo di riuscire ad essere all’altezza di Serling.

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