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L’habitat di Richard Sennett

L’habitat di Richard SennettWayne Thiebaud, «City Views», 2004

Saggi Strategie di separazione e tentativi di riconnessione tra spazio della performance e agorà: «La società del palcoscenico», una lettura critica della nostra vita collettiva, da Feltrinelli

Pubblicato 26 giorni faEdizione del 1 settembre 2024

Il respiro dei lavori di Richard Sennett si avvale, da sempre, di accostamenti, combinazioni, sconfinamenti. Sebbene la sua ricerca abbia acquisito visibilità già nel 1970, dopo la pubblicazione di Usi del disordine, le radici del suo lavoro affondano in un periodo ancora precedente, quando Sennett pensava che la vita lo avrebbe portato in una direzione diversa da quella della ricerca sociale. Aveva studiato da violoncellista, infatti, ma un infortunio a una mano lo costrinse a dirottare i suoi interessi e a seguire le lezioni di David Riesman, allora direttore del dipartimento di Relazioni Sociali a Harvard.

La formazione come musicista sarebbe comunque tornata più e più volte a galla, in primo luogo riverberandosi nello studio del ruolo centrale che il corpo ha nelle nostre relazioni, nelle attività che svolgiamo e negli spazi che occupiamo, sia in rapporto alle geografie urbane – come si legge in Flesh and stone. The body and the city in Western civilization, del 1996, sia in lavori di diversa natura, dall’Uomo artigiano a Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, che formano – con Etica per la città – la trilogia intitolata «Progetto Homo Faber».

Il paradigma classico e poi rinascimentale dell’uomo come artefice del proprio destino ha a che fare – scrive Sennett – sia con le nostre abilità tecniche e il loro prendere forma nell’interazione collaborativa con gli altri (di cui egli stesso fece esperienza in quanto membro di una orchestra) sia con il nostro costruire le città che abitiamo, sia con la distruttività propria dell’animale umano.

Fin dagli inizi, (The Hidden Injuries of Class, scritto con Jonathan Cobb, è del 1972) mentre studiava le relazioni sociali negli spazi urbani, Sennett si è concentrato sulle dinamiche intrinseche ai rapporti pubblici, che riflettono il modo in cui il capitalismo trasforma il lavoro, l’economia e la vita in genere, sempre evitando analisi riduttivamente economiciste delle trasformazioni imposte dal neoliberismo alle relazioni sociali. Lavori come L’uomo flessibile, in cui riflette sulle ricadute del capitalismo maturo sulla nostra sulla vita quotidiana (del 1988) e La cultura del nuovo capitalismo (del 2005) lo hanno reso una celebrità, uguagliata in America solo da quella di Christopher Lasch grazie al suo epifanico La cultura del narcisismo.

Sia gli interessi di Sennett, sia la sua attività di consulenza per varie agenzie dell’Onu su questioni urbane, lo portarono a concentrarsi sulle città contemporanee in quanto luoghi fisici, con le loro architetture, le piazze, le strade, insomma i centri urbani della nostra esperienza sia domestica che lavorativa. E lo ha fatto restituendo in modo credibile centralità al corpo, di cui indaga – con gli strumenti delle scienze sociali – gli effetti patiti dalle asimmetrie di potere, e problematizzando la frontiera tra universo pubblico e privato, le sue trasformazioni, i dati che diamo per scontati e che tali non sono.

Tutti questi temi tornano ora, in varia misura, nell’ultimo libro per il quale Richard Sennett ha scelto un titolo – The performer. Art, life politics – che suona forse più congruo di quello scelto per la sua traduzione: La società del palcoscenico Performance e rappresentazione in politica, nell’arte e nella vita (traduzione di Giuliana Olivero, Feltrinelli, pp. 273, € 25,00) dove, riprendendo il tema generale del rapporto tra arte e società già toccato in lavori precedenti, costruisce un primo tassello dedicato alle arti performative, che insieme ai successivi saggi sulla narrazione e sull’immagine andranno a comporre un’ulteriore trilogia. Non a caso, tra le pagine di questo lavoro Sennett scrive di sentirsi più vicino alla lettura della sfera pubblica che ci venne consegnata da Walter Benjamin nelle sue tesi sulla storia, che non a quella, comunque fondamentale, di Jürgen Habermas.

Al centro del volume, la performance in quanto esercizio espressivo che accomuna figure assai diverse – dal musicista al demagogo, dall’attore a colui che organizza manifestazioni politiche – delle quali Sennett analizza specificità ma anche caratteristiche trasversali, mettendone in evidenza, quale fattore costitutivo, il carattere chiuso (nel teatro moderno) o aperto (per la strada).

Anche in questo testo – come già in Rispetto, dove trattava della «dignità umana in un mondo di diseguali» (uno studio dedicato alle politiche urbane e all’assistenza, dove Sennett esibiva la propria esperienza diretta, provenendo da uno dei più importanti progetti di edilizia residenziale pubblica di Chicago) il punto di partenza è la sua personale esperienza di performer.

Mentre esplora le strategie con cui l’arte, la strada e la politica si separano l’una dall’altra, ma al tempo stesso si dispongono a una eventuale riconnessione, Sennett legge criticamente la nostra vita sociale e la sua organizzazione, passando per una ricostruzione del modo in cui lo spazio della performance – il palcoscenico – è andato separandosi dai luoghi della vita sociale – l’agorà – per ripresentarsi come problema nella città contemporanea, dove il tentativo di far comunicare queste due dimensioni dà luogo a soluzioni che vanno da interventi di gentrificazione meramente funzionali a intensificare i consumi, a tentavi di (ri)creare le condizioni materiali di una effettiva apertura degli spazi urbani alla complessità. Tra le sue pagine, a intervallare le notazioni raccolte via via, il racconto di incontri con figure che hanno avuto un ruolo nel suo pensiero, da Norbert Elias a Hannah Arendt a Roland Barthes.

Nell’enfatizzare il carattere di porosità delle nostre organizzazioni sociali (vale la pena ricostruire genesi e avventure di questo concetto nel librino di Mittelmeier, Adorno a Napoli, Feltrinelli 2013), Sennett rinvia al teatro mobile di Tadao Ando, quel Kara-Za che portava in scena rappresentazioni estranee alla cultura locale. La stessa politica, e sempre più smaccatamente sulla scena contemporanea, è (nel bene e nel male) terreno di performance, dove i protagonisti della res publica allestiscono i loro spettacoli, sostitutivi di quell’«ambito verbale», che come Sennett ha ricordato presentando il suo libro in America, sembra essersi drammaticamente «esaurito».

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