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Lezioni di calcio liquido

Lezioni di calcio liquidoRijkaard, Van Basten, Gullit

Il libro Emiliano Battazzi analizza l'evoluzione tattica della Serie A

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 11 settembre 2021

La condizione postmoderna mette fine alla ricerca del Nuovo e dell’Ignoto (tali erano i termini che Baudelaire, in Voyage, riteneva gli obiettivi del Moderno) imponendo una pratica generalizzata del ri-uso, dalla citazione alla ibridazione o alla vera e propria incorporazione di quanto già esperito dalla modernità medesima, quasi si trattasse di un eterno ritorno. In proposito, il genio sociologico di Zygmunt Bauman coniò la formula di «società liquida», la quale evoca immediatamente flessibilità, fungibilità e persino aleatorietà cui oggi non sfugge nemmeno la petite histoire del calcio se Emiliano Battazzi può intitolare Calcio liquido. L’evoluzione tattica della serie A (66THA2ND, «Attese», pp. 248, euro 16.00) un volume che si segnala per la chiarezza espositiva, per la precisione analitica (suffragata da cognizioni di primissima mano perché Battazzi è caporedattore-calcio dell’Ultimo Uomo, rivista digitale di Sky) nonché per una efficacia stilistica indenne dai gerghi sciamannati che ipotecano la produzione corrente.

Il periodizzamento muove dal tramonto delle scuole calcistiche nazionali (fra cui, notoria per il suo pragmatismo, quella del calcio all’italiana, vulgariter il Catenaccio) e dalla insorgenza negli anni Settanta del calcio totale, totaalvoetebal, conio dell’antesignano Rinus Michels sulla panchina dell’Ajax di Amsterdam, che lo trasmise al Barcellona e a tutti gli eretici e/o epigoni di un’Europa calcistica ammirata, compreso l’ex agente di commercio avventurosamente pervenuto nei tardi anni Ottanta alla giuda tecnica del Milan, quell’Arrigo Sacchi che avrebbe fatto del calcio totale il credo fondamentalista su cui edificare la squadra di club più forte che il calcio italiano abbia mai espresso a livello internazionale, la stessa di Gullit, Van Basten, Rijkaard, Maldini, Ancelotti e compagni, mattatrice della Coppa dei Campioni.

Tattica del fuorigioco, pressing, gioco senza palla secondo schemi predefiniti, armonizzazione dei reparti e reversibilità funzionale dei singoli calciatori in una specie di fisarmonica o di panoplia itinerante fanno del modulo sacchiano l’antipode del tradizionale calcio all’italiana fondato sul safety first e sul binomio di difesa chiusa e contropiede. In altri termini, l’uno è un calcio propositivo mentre l’altro è reattivo.

A Sacchi si ispirano, ad esempio, Zdenek Zeman (un dogmatico molto celebrato che però non ha mai corretto i difetti difensivi delle proprie squadre) e più avanti il giovane maestro del calcio «posizionale» Pep Guardiola (oggi valutato alla stregua di un oracolo tattico nel controluce dei propri istruttori, Michels e Cruyff) così come Carlo Ancelotti, il più duttile e vincente tra i sacchiani, Antonio Conte, Maurizio Sarri, il Klopp del gegenpressing ora al Liverpool, senz’altro Roberto Mancini (il cui trionfo europeo con la nazionale dà senso a un lungo percorso segnato invece dall’eclettismo tattico) e infine tecnici più recenti quali l’ottimo Thomas Tuchel del Chelsea e i nostri Gian Piero Gasperini alla guida di una magnifica Atalanta e De Zerbi già al Sassuolo, fisionomie tra loro spesso diversissime che Battazzi ha il merito di censire e di definire con precisione filologica.

La liquidità della metafora baumaniana sta semmai nella serie infinita e reciproca di intersezioni e di contaminazioni, tali da produrre un calcio tatticamente multiuso ormai anche all’interno della singola partita: d’altronde i processi di mondializzazione e relativa mediatizzazione hanno presto comportato procedure d’ordine scientifico a partire dalla preparazione atletica nonché il fatto che tutti vedono, tutti studiano e possono imparare da tutti. Se, dunque, da un lato è innegabile come il calcio totale abbia prodotto la rivoluzione disgregando le scuole nazionali chiuse e identitarie (per cui l’atletica era ascritta agli anglosassoni, la tecnica ai danubiani e poi ai sudamericani, l’astuzia agli italiani), dall’altro dovrebbe essere riconosciuto come tali scuole abbiano saputo mutare, dentro e fuori dai confini d’origine, rigenerandosi nell’altro da sé.

Pur trattandone con equilibrio, Battazzi appartiene tuttavia a una generazione di analisti che ritiene il calcio all’italiana una vicenda morta e sepolta insieme con le astuzie di Bertoldo, paventando la tentazione ricorrente di un gioco gretto e provinciale, vocato a una totale subalternità. (Anche un saggista quale Sandro Modeo, uno dei riferimenti di Battazzi, autore di alcuni eccellenti profili, L’alieno Mourinho e Il Barca entrambi da Isbn, parla del Catenaccio più o meno come del Maligno). È possibile però che anche il vituperato ma Santo Catenaccio, come lo voleva Gianni Brera, una volta emendato e ripensato possa rientrare nel campionario delle poetiche calcistiche a disposizione e tra i moduli da adattare o riutilizzare. Il catenaccio, andrebbe sempre ricordato, cercava la profondità e gli spazi non meno degli Ajacidi o dei blaugrana e oltretutto era meno noioso di certe prolungate titillazioni ispaniche. Posto che Giovanni Trapattoni ne è stato il maggiore seguace (un tempo sfottuto in tv con goliardica idiozia, oggi ci si avvede che il suo palmarès internazionale non ha eguali), è difficile comunque non rinvenire citazioni e spezzoni del gioco all’italiana nella tattica mutante e per l’appunto liquida del calcio di oggi, dove si alternano a oltranza sequenze di gioco reattivo e propositivo.

Capello per esempio fu un catenacciaro travestito da sacchiano, Allegri è un pragmatico che nemmeno si pone il problema e Mourinho, mistificatore sottilissimo, poliglotta à la page, erge volentieri spaventose dighe difensive: proverbiale Barcellona-Inter del 2010 giocata dai nerazzurri con un uomo in meno, quando Mou raddoppiò la arcaica Maginot di Rocco in una specie di Vallo di Adriano dove finirono fatalmente immolati gli assaltatori del Pep. Ma è lo stesso Mourinho a sostenere che nel calcio di oggi non contano i moduli o gli schemi in sé, bensì dei saldi principii o delle potenzialità di gioco che ogni calciatore deve saper sviluppare a seconda delle occasioni.

Questo è ciò che a Coverciano, dal 2010, propugna Maurizio Viscidi il coordinatore tecnico delle nazionali giovanili, riguardo al quale nota Battazzi: «Dopo l’addio di Sacchi, Viscidi ne ha preso il posto, continuando nello stesso percorso, quello di ampliare le capacità cognitive dei giocatori, slegandoli dall’apprendimento rigido degli schemi. Una filosofia ben riassunta dall’acronimo CARP: Costruzione, Ampiezza, Rifinitura e Profondità. Si tratta in sostanza di quattro macro-principi di gioco, in fase di possesso, in base al quale i ragazzi devono saper interpretare quello che succede in campo, senza soluzioni schematiche preordinate e senza ruoli fissi».

Così come, spiega Fredric Jameson nel classico Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo (Fazi 2007), due diverse tradizioni (l’Antico e il Moderno) si sono divise e combattute ma solo per trovarsi finalmente equiparate nella ricezione postuma, allo stesso modo la tradizione del calcio totale o moderno oggi appare in retrospettiva il riflesso dialettico del calcio antico e barricadero.

Ancora Jameson ci insegna come il Postmodernismo non vede al culmine della disputa fra Antichi e Moderni un superamento ma una concomitanza, anzi una coabitazione: perciò, nella piccola storia del calcio, Arrigo Sacchi oggi non è meno datato di Nereo Rocco.

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