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Lewis Lapham, inedito maestro di giornalismo

Lewis Lapham, inedito maestro di giornalismoLewis Lapham

Express Direttore per quasi trent’anni di «Harper’s», è stato un «un inventore di forme nuove», utilizzando il montaggio, dove la giustapposizione diventa l’elemento primordiale per trasmettere un messaggio (critico, satirico o ludico)

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 15 agosto 2024

Con poche eccezioni (fra queste, va menzionato il Post, sempre attento a quello che accade nel mondo dei media), nessun giornale italiano ha dato notizia della morte a Roma, il 23 luglio, di Lewis Lapham, direttore per quasi trent’anni di Harper’s – 1976-1981 e 1983-2006 – e in seguito fondatore di una sua rivista trimestrale, il Lapham’s Quarterly, «un baluardo intellettuale in un’era di conformismo», come l’ha definita qualche anno fa su Letras libres il critico e editore spagnolo Jacobo Zanella. Insomma, un maestro del giornalismo, non solo negli Stati Uniti, a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo.
Ancora Zanella su Letras libres ha scritto all’indomani della sua scomparsa che Lapham è stato, forse più di ogni altra cosa, «un inventore di forme nuove»: «Se compito dell’editor è inventare forme per catturare il mondo e poter trasmettere, attraverso di esse, uno sguardo personale inedito a un lettore, Lapham lo ha fatto utilizzando la forma del montaggio, dove la giustapposizione diventa l’elemento primordiale per trasmettere un messaggio (critico, satirico o ludico), creando nella lettura un nuovo insieme che non poteva essere notato o intuito nei singoli elementi precedenti».
Convinto, come Plutarco, che la mente umana non sia un contenitore da riempire ma un fuoco da accendere, Lapham vedeva, in questo suo accostare materiali diversi, anche provenienti da epoche distanti, «uno sfrigolio di fiammiferi» che avrebbe forse avuto l’effetto, nei lettori, di dare origine a pensieri nuovi.
Lui stesso, del resto, era in certo senso l’esempio migliore di questo gioco dei contrasti: «un principe delle lettere americane e un traditore della sua classe», è il titolo dell’articolo che Mark Medish gli ha dedicato su Counterpunch, mentre Lee Siegel sul New Statesman ricorda le sue origini aristocratiche secondo i parametri americani («figlio di un banchiere, nipote di un sindaco di San Francisco, pronipote di uno dei fondatori della Texaco»), così come il gusto di «ficcare il dito in un occhio» al momento giusto.
«Il patrizio liberal Lapham – scrive ancora Siegel – sapeva bene, ad esempio, che quando Kennedy tagliò l’aliquota fiscale marginale massima, indebolì molto la marcia verso i diritti civili: il costo dei beni preziosi salì insieme ai redditi più alti, e i neri appena emancipati si trovarono a lottare per sopravvivere nei bassifondi delle città del Nord. Tanto meglio, perché c’era sempre l’opzione dell’esercito, che li accolse a braccia aperte e li mandò al macello nel Sud-Est asiatico. E lo stesso fu per la classe operaia bianca, il cui passaggio a Reagan ebbe molto a che fare con la decimazione dei suoi figli…. Lewis era consapevole di tutto questo. Per questo pubblicò i laceranti saggi di Barbara Ehrenreich sul calvario degli operai americani e il meticoloso atto d’accusa di Christopher Hitchens contro il beniamino dell’establishment della politica estera, Henry Kissinger».
E tutto questo senza strafare, senza darsi troppe arie, restando «un maestro dell’understatement ironico»: Christian Lorentzen, che lo descrive così sul Washington Post, aggiunge che «a differenza dei suoi colleghi dell’epoca del New Journalism, con i quali è stato talvolta accomunato, non ha mai cercato di rendersi protagonista, anche se i suoi lettori potevano sempre percepire di essere in presenza di un narratore forte e affidabile con un singolare talento per la metafora». Difficile aggiungere altro, di sicuro ci mancherà.

Express va in vacanza. Ci rivediamo giovedì 5 settembre.

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