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Levin, supermenti e alienisti per un delitto perfetto

Levin, supermenti e alienisti per un delitto perfettoFarley Granger e John Dall in "Rope" ("Nodo alla gola") di Alfred Hitchcock, Usa 1948

Dalla cronaca alla fiction Scritto da un testimone, «Compulsion» (ora da Adelphi) è il romanzo-verità su un omicidio e il suo processo nella Chicago degli anni venti

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 10 settembre 2017

«Per essere al di sopra della legge, l’autore del delitto non deve essere spinto dal bisogno né da altri moventi emotivi tipicamente umani quali la lussuria, l’odio o l’avidità. In tal caso il delitto è puro atto, il gesto di un essere assolutamente libero, di un superuomo». È subito spiegato, nelle prime pagine, l’aspetto teorico alla base di uno dei più raccapriccianti e discussi delitti compiuti a Chicago negli anni Venti, quando già – su altri livelli di criminalità – spadroneggiava Al Capone. A parlare in questi termini in un’aula universitaria, il giorno successivo alla scoperta di quello che fu chiamato il «delitto del secolo», è uno dei due protagonisti della vicenda, ricostruita trentadue anni dopo da Meyer Levin in Compulsion (Premessa di Marcia Clark, prefazione di Meyer Levin, introduzione di Gabriel Levin, traduzione di Gianni Pannofino, Adelphi «Fabula», pp. 580, € 28,00), il primo – a quanto pare – di quei «romanzi-verità» o «romanzi-documento», a cui sarebbero seguiti A sangue freddo di Truman Capote e il Canto del boia di Norman Mailer.
Levin – Sid Silver nella finzione – fu un attento testimone delle indagini in veste di aspirante giornalista al servizio del Globe (nella realtà il Chicago Daily News), mentre frequentava l’Università di Chicago dove aveva conosciuto i due assassini. I nomi di tutti i co-protagonisti sono posticci in questa storia vera, perché, come Levin spiega, egli non poteva essere a conoscenza dei sentimenti e delle introspezioni dei suoi personaggi, in particolare di quelle dei due giovani criminali, allora ancora minorenni, nei giorni della caccia all’assassino, fattori che non emersero neanche alla luce della cronaca, ma altrettanto influenti sulla piena elucidazione del caso. Di qui l’invenzione, o la ricostruzione immaginaria di alcune scene del dramma: e quindi il romanzo ma, in sostanza, Compulsion più che un romanzo è un documento storico, molto utile anche allo studio del sistema legale della giustizia americana o, nello specifico, dell’Illinois.
Nel 1924 i diciottenni Nathan Leopold (nella finzione: Judd, Judah Steiner Jr.) e Richard Loeb (Artie, Arthur Straus), appartenenti a facoltose famiglie ebree di origine tedesca del privilegiato South Side di Chicago, legati da una lunga e morbosa amicizia, decidono di compiere il delitto perfetto sotto la mascheratura del sequestro di persona a scopo di riscatto. Ricordiamo: il delitto perfetto è quello senza movente, e loro, Artie (la mente più criminale) e Judd (il più teorico e con chiare tendenze omosessuali) erano figli di gente molto ricca. Se eseguito da super-menti (superuomini nietzscheani) quel delitto sarebbe stato al di sopra della legge comune, ovvero i due assassini, convinti di poter agire «al di là del bene e del male» grazie al loro altissimo quoziente di intelligenza, non solo non sarebbero mai stati scoperti ma sentivano di poter giustificare su un piano giuridico-intellettuale il loro atto «puro».
In realtà, nonostante avessero pianificato da mesi ogni minimo dettaglio, essi lasciarono nella loro scia tanti di quegli indizi a loro sfavore che a una settimana dal misfatto (il brutale assassinio di un quattordicenne scelto a caso nella cerchia del loro stesso ambiente) si troveranno a rispondere davanti agli inquirenti. L’unica cosa buona in questa brutta faccenda, dice al figlio il padre di Sid Silver, è che, ai fini dello sdegno della comunità cittadina, vittima e carnefici sono tutti ebrei. Quindi, non ci fu alcuna reazione razziale, se non l’allestimento di una croce in fiamme del Ku Klux Klan come manifesto contro i sessualmente «invertiti». Ebreo è anche il giovane indagatore, ma è un ebreo diverso, di origini mitteleuropee cresciuto nel povero West Side ebraico di Chicago. Tali differenze di classe sociale e di provenienza europea allora contavano nella cerchia ebraica. Un fattore in più a giustificare il superomismo tedesco sostenuto da uno dei due assassini.
Ciò che, nella sua ricostruzione, preme a Levin non è tanto l’efferatezza del delitto quanto il movente teorico e i metodi scelti dalle due parti – l’accusa e la difesa – per condurre il processo che da maggio si protrasse fino ad agosto inoltrato, concludendosi con la condanna all’ergastolo perorata dalla difesa piuttosto che con l’impiccagione invocata dall’opinione pubblica. Diviso in due parti – «Il delitto del secolo» e «Il processo del secolo» – Compulsion segue prima la concatenazione delle fasi del delitto via via che gli indizi si concretano, restituendo al lettore un poliziesco avvincente all’interno di un ritratto sociologico della Chicago bene; e quindi si occupa del processo durante il quale per la prima volta si fece ricorso ai nuovi metodi della psicoanalisi (freudiana) assieme ad altri elementi più tradizionali come il valore della colpevolezza, il libero arbitrio, la compulsione, il castigo.
Ma fu soprattutto l’apporto delle analisi psichiatriche, piuttosto avanzate per l’epoca, a fare emergere i disagi psichici ed emotivi intervenuti nell’infanzia dei due ragazzi e repressi sotto la loro apparente normalità di giovani dall’intelligenza eccezionale. Ciò diede spazio a un dibattimento sulle contrapposte definizioni – legale e psichiatrica – dell’infermità mentale e dell’omosessualità, argomento, quest’ultimo, allora molto scabroso. Secondo Levin, il lavoro degli «alienisti» (così venivano chiamati gli psichiatri) costituì un progresso nella relazione fra gli aspetti penali del crimine e le ragioni psichiche che lo determinano. Insomma, si sostiene che il contributo della psicoanalisi all’applicazione della legge permise di riconoscere le attenuanti necessarie a salvare la vita degli imputati. Si scoprì, infatti, che, sebbene in modo diverso, la loro psiche era così contorta e malata, la loro personalità talmente disturbata che il loro atto non poteva essere ritenuto patibile di pena capitale.
Ma sul piano di un ragionamento più ampio Levin – che in seguito fu corrispondente di guerra e tra i primi a entrare nel campo di Auschwitz – propone altre considerazioni. «Certi delitti – egli scrive nella sua Prefazione – sembrano racchiudere in sé il pensiero della loro epoca». Dopo l’esperienza della guerra, la folie à deux di Leopold e Loeb gli parve che potesse essere considerata un primo sentore dell’altra follia psichica che proprio in quegli anni andava maturando in Europa. In Compulsion le sue interpolazioni su questo tema sono numerose. Per esempio, nel momento in cui si diffonde la notizia, egli scrive: «Era come se quel giorno il delitto avesse aperto una piccola crepa nella superficie del mondo, attraverso la quale potevamo intravedere un male che ancora doveva emergere»; e durante l’arringa della difesa riflette a posteriori: «Nel 1924, in quell’aula di tribunale a Chicago, lontano dalla Monaco in cui un altro nietzscheano, nello stesso anno, cominciava la sua storica marcia, il campanello d’allarme non fu udito».
Nella Introduzione il figlio, Gabriel Levin, giunge a una conclusione provocante quando propone il procedimento di una scrittura à rebours: «benché si presenti come un thriller psicologico», Compulsion «sarebbe da leggere come un’ampia riflessione sul lato oscuro dell’umanità nella scia dell’Olocausto. (…) Non potrebbe l’incomprensibile barbarie degli atti bellici essere letta a ritroso, isolata, vivisezionata – come in un esperimento di laboratorio – analizzata e racchiusa negli atti criminosi di questi due giovani che avevano tutto – ricchezza, cervello, prospettive – e che, ciononostante, architettarono ed eseguirono un delitto gratuito e di estrema efferatezza ai danni di una vittima scelta a caso?».

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