L’evanescenza degli oggetti
Mostre Apre oggi «Cy Twombly, Photographer», all’American Academy di Roma. L'artista che graffiava la tela alle prese con un'attività di reporter di dettagli invisibili della quotidianità
Mostre Apre oggi «Cy Twombly, Photographer», all’American Academy di Roma. L'artista che graffiava la tela alle prese con un'attività di reporter di dettagli invisibili della quotidianità
Cosa spinge un pittore a fotografare? Non a diventare fotografo, ma – appunto – a fare delle fotografie. Le ragioni possono essere le più varie, naturalmente. Nel caso di Cy Twombly, tuttavia, il pittore che forse più di tutti nel Novecento avrà sperimentato l’estenuata intensità del colore, un possibile movente è connesso con la natura stessa della fotografia, e cioè con quel trattenere sulla superficie ciò che passa mediante una «scrittura di luce» impalpabile ed evanescente come il supporto su cui viene stampata. La mostra Cy Twombly, Photographer, curata da Peter Benson Miller, presso l’American Academy di Roma, aperta fino al 22 novembre, propone una selezione di fotografie che l’artista americano ha scattato fra il 1951 e il 2011 (oggi l’inaugurazione con una conversazione tra Benson Miller e Sally Mann, che leggerà dal suo memoriale Hold Still).
È un’occasione per percorrere un itinerario singolare, non programmato, che sembra svilupparsi per salti, senza una continuità definita, aperto, gratuito, libero di quella libertà sovrana che nasce dal fare senza perseguire uno scopo determinato. Soltanto a partire dagli anni Ottanta, infatti, Twombly raccoglie con una qualche sistematicità le sue fotografie (e soltanto nel 1993 ne permetterà la pubblicazione), ma resta forte l’impressione, davanti a quasi ogni scatto, della presenza impalpabile del Caso, vale a dire dell’irruzione insinuante quanto leggera di qualcosa di imponderabile nel corso normale delle cose.
In effetti le nature morte, i fiori e i frutti, i paesaggi, gli interni, i ritratti e le stesse immagini fotografiche delle opere intrattengono con la pittura e la scultura di Twombly un rapporto ambiguo: da una parte, c’è la comune fascinazione per la luce che agisce sugli oggetti e sui paesaggi trasformandoli in campiture esauste di colore in una sorta di pura dilatazione, dall’altra la fotografia costringe Twombly a uno sguardo ogni volta singolare, preciso e fisso sull’evento imprendibile del quotidiano, che bilancia in un movimento estremo di contrazione delle forme, e nel particolare, il dissolversi nel puro colore. È ciò che mostrano queste fotografie: il limite ultimo dei contorni un momento prima del loro disfarsi, il tendersi della forma fino al punto di non ritorno e quindi l’attimo immediatamente precedente l’irrompere irrefrenabile della campitura.
Vita e morte s’intrecciano in questi lavori, come del resto in tutta l’opera di Twombly, perché è esattamente questo passaggio che egli tenta di sorprendere – quello che per lui è l’impossibile al centro dell’arte. Non a caso quasi tutte le fotografie sono state scattate con la Polaroid SX-70. Per certi versi, si tratta di uno strumento immediato, originario, ossia iniziale e quanto mai intenso nella resa dei colori. È questo primitivismo a interessarlo, ma non tanto per questioni di espressività quanto piuttosto per il carattere fulmineo, quasi selvaggio, a stento contenibile, assunto dai colori. Più tardi, quando trasferirà su carta con un particolare processo di stampa queste immagini, la cosa si farà ancora più scoperta. Ed è interessante questo lavoro sulla bidimensionalità di un pittore e scultore come Twombly. Le foto delle sue opere mostrano in maniera se possibile più evidente lo stupore di fronte all’inconsistenza della «materialità»: la tridimensionalità diventa superficie, si fa carta, ma quest’ultima è un «supporto» lieve, un quasi-nulla che testimonia della paradossalità di ogni materia, compresa la tela, il bronzo, il cemento o il legno. La fotografia diventa allora una pratica di riduzione agli elementi semplici, un gesto di rarefazione sorprendente.
Dai primi lavori in bianco e nero, tra cui spicca uno Still life del 1951 che sembra uscito dall’atelier di Giorgio Morandi e, sempre dello stesso anno, Temple, Selinunt, dove l’informe della pietra grezza occupa gran parte dello spazio delimitato in fondo da tre colonne doriche in un incontro senza soluzione di continuità tra la natura e l’arte, fino a Bay of Gaeta (lighter), 2004, in cui una luce abbacinante fonde il cielo con il mare e smangia la costa scura, o a Light Flowers VI, Gaeta, del 2009, una composizione floreale dai contorni sfumati dove ogni cosa è sospesa e pare giungere da una distanza assoluta, tutto in queste fotografie è transitorio, precario, incerto. Ma insieme a ciò vi è – e questa volta è invece palpabile, concreto, chiaro – l’incanto per il passare, per il trascorrere, insomma per la vita così com’è. Se vi è nostalgia, è per questo infinito finire che è l’esistere. Non ci sono più dèi, forse, ma rimane l’aprirsi singolare del mondo, l’accadere inusitato e imprevedibile delle cose.
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