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L’europeismo, libero e dal basso, dei giovani cervelli

In gran parte dell’opinione pubblica è assai diffuso un atteggiamento che considera quanto accade negli assetti dell’Unione europea come qualcosa di distante, che non influisce direttamente sulla vita dei cittadini […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 10 gennaio 2020

In gran parte dell’opinione pubblica è assai diffuso un atteggiamento che considera quanto accade negli assetti dell’Unione europea come qualcosa di distante, che non influisce direttamente sulla vita dei cittadini del Vecchio continente (e delle sue isole). Semmai attraverso meccanismi macroeconomici attinenti al commercio e ai mercati, oppure, nelle aree interessate, in conseguenza di delicati equilibri politici come il confine tra le due Irlande.

E lo strappo clamoroso della Gran Bretagna non fa eccezione.

La decisione del parlamento inglese di chiudere con il 2020 la piattaforma ed il programma Erasmus+ ,con le innumerevoli proteste che l’hanno seguita, squarcia questa percezione di distanza.

Erasmus non è stato un semplice programma di cooperazione e interscambio culturale, ma un’esperienza di vita attraversata nel corso degli anni da decine di migliaia di giovani, un’esemplificazione concreta di cosa significhi la circolazione delle idee e la libertà di movimento. Una dimensione, pur circoscritta, ma nella quale l’ «essere europei» (e aperti al resto del mondo) si dava come condizione del tutto naturale, una percezione di sé e del proprio percorso come affatto indipendenti dai recinti nazionali. Laddove i «cervelli» non fuggono e non ritornano ma pretendono di soggiornare in piena libertà.

Certo, si trattava di un segmento, di un tassello, ma ad alto contenuto simbolico e politicamente prefigurante, più o meno apertamente inviso ai sovranisti e a quella versione ottusa e limitata delle tradizioni culturali nazionali che li contraddistingue. Accusato, fra l’altro, demagogicamente e a torto, di riguardare solo una minoranza di privilegiati. Ma avversato soprattutto in quanto manifestazione concreta di un europeismo praticato dal basso e ben diverso dalla retorica delle istituzioni dell’Unione e dalle strategie di formazione e indottrinamento del capitale umano».

L’Inghilterra, che oggi se ne tira fuori, bocciando un emendamento delle opposizioni che la impegnava a proseguire Erasmus+ oltre la Brexit, promette che, a mani libere, rinegozierà con l’Europa su questa materia come su tutto il resto. Ma, pur senza considerare le incertezze di questi impervi negoziati, punterà più che altro a istituire qualche forma controllata di interscambio culturale.

Fondamentalmente diversa da uno spazio aperto che fa della contaminazione la sua ragion d’essere. Prima di tutto nei desideri e nelle intenzioni dei giovani che l’attraversano. E che, soprattutto Oltremanica, hanno immediatamente messo a fuoco il recinto nel quale li si vuole rinchiudere. Per questa ragione la reazione degli studenti e di parte del mondo intellettuale è stata vivace e diffusa.

L’idea di Boris Johnson e della sua banda, ubriacati dalla maggioranza parlamentare di cui dispongono, è che si possa fare tabula rasa. E, una volta ridotta in macerie quella che fu la lunga (e tutt’altro che scomoda) permanenza della Gran Bretagna nella comunità europea, ricostruire un rapporto «amichevole», ovverosia conveniente, con l’Unione. Ma proprio nella dimensione dell’ «internazionalismo culturale» e tra le giovani generazioni nate e cresciute in una Europa sia pur malamente unita, e non nella capitale di un impero da tempo estinto, questa cancellazione della storia, delle esperienze vissute, degli orizzonti comuni e delle libertà acquisite non sarà impresa facile per il nazionalismo inglese.

Le reazioni suscitate dal voto per la chiusura di Erasmus sono il primo segno della resistenza che poggia proprio sulla diffusa coscienza di questo vissuto.

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