Non c’è più alcun dubbio: i grandi predatori sono gli uomini, voraci e insaziabili. Ogni specie animale, anche quelle che una volta suscitavano in noi le più grandi paure, è ormai sotto attacco. Anzi, sotto scacco. Ai primi posti di questa macabra lista c’è uno dei predatori più temuti di sempre: lo squalo. Alla sua stazza, alla sua dentatura affilata e alla sua leggendaria voracità, sono stati dedicati racconti e film che hanno fatto la storia.

LA REALTÀ PERÒ OGGI È BEN DIVERSA e ce la racconta Ifaw (International Fund for Animal Welfare) in un report presentato lo scorso primo marzo, dal titolo The Eu’s role in the global shark trade nel quale, oltre a fare il punto su come è messa la specie nei mari del mondo, viene fatto un focus sul ruolo dell’Unione Europea nel commercio mondiale di squali, prendendo in esame il periodo 2003 – 2020. Partiamo dai dati più drammatici: ogni anno in tutto il mondo vengono uccisi circa 100 milioni di squali, principalmente per il commercio delle loro pinne, più del 50% delle specie sono minacciate o quasi minacciate di estinzione, e gli squali pelagici (quelli che si trovano in alto mare) sono diminuiti di più del 70% negli ultimi 50 anni e del 54% solo nel Mediterraneo.

UN VERO DANNO NON SOLO ALLA SPECIE ma a tutto l’ecosistema. Lo squalo, infatti, presente sul nostro pianeta da 400 milioni di anni, tenendo sotto controllo, attraverso la predazione, la demografia delle altre specie e mantenendo sano l’ambiente marino, contribuisce attivamente alla preservazione degli ecosistemi. Ridurre il numero di questi predatori significa portare al collasso ecologico l’intero habitat.

SONO LE LORO PINNE A RENDERLI COSI’ ricercati, ma anche la loro carne, prodotti entrambi molto richiesti nei paesi asiatici, soprattutto Hong Kong, Singapore e Taiwan dove la zuppa di pinne di squalo è un piatto rinomato, simbolo di salute e prestigio. Dal 2003 al 2020, i prodotti a base di pinne di squalo importati nei 3 principali snodi asiatici hanno raggiunto il totale di 188.368,3 tonnellate e l’Ue è stata responsabile di quasi un terzo di queste importazioni (in media il 28%, 53.407,49 tonnellate), con un costante aumento negli anni fino a raggiungere, nel 2020, il 45% % dei prodotti legati alle pinne di squalo arrivati nei paesi asiatici proprio dagli Stati membri. In questa macabra classifica l’Italia è ben piazzata risultando, insieme a Spagna, Portogallo, Olanda e Francia, uno dei maggiori esportatori.

LO SHARK FINNING E IL RUOLO DELL’EUROPA. La pratica, detta shark finning o spinnamento, è brutale: le pinne vengono tagliate sull’animale vivo che viene poi ributtato in acqua, andando incontro a una morte terribile per soffocamento e dissanguamento. Non c’è alcuna selezione, non si tiene conto della specie, della taglia o dell’età. L’unico criterio è il profitto, perseguito creando spazio per conservare e vendere molte più pinne. In quest’ottica il corpo dello squalo è un inutile fardello.

LA PRATICA DEL FINNING E’ STATA per molto tempo comune e legale in Europa fino a che, nel 2013, dietro forti pressioni di Shark Alliance, Marevivo e altre associazioni ambientaliste, è entrato in vigore il regolamento Fins Naturally Attached, che prevede che le pinne dello squalo debbano rimanere naturalmente attaccate alla carcassa quando la nave viene scaricata nel porto e, solo successivamente, potranno essere separate dall’animale ed esportate all’estero. Il regolamento vieta dunque, senza eccezioni, lo stoccaggio, il trasbordo e lo sbarco di tutte le pinne di squalo nelle acque e su tutte le navi dell’Ue.

NONOSTANTE QUESTO L’EUROPA rimane uno dei maggiori esportatori di pinne e un importante centro di transito per il commercio mondiale e poiché le ispezioni in mare sono rare le pinne sono tuttora illegalmente conservate, trasbordate o sbarcate in Europa. «Inoltre – dice Massimiliano Falleri, sub di Marevivo – essendo il commercio delle pinne scoraggiato dall’entrata in vigore del Regolamento del 2013 si è fatto spazio un nuovo fenomeno: la comparsa sul mercato della carne di squalo verdesca, per la quale prima c’era scarso interesse e che negli ultimi anni si è aggiunta alle altre specie di squali che continuano ad essere pescate andando ad allungare la lista delle specie a rischio».

SECONDO IL «FOOD BALANCE SHEET» della Fao, nel 2017 circa il 3% del consumo totale pro capite di prodotti di pesca e acquacoltura è composto da squali e razze. Per quello che riguarda il nostro paese, secondo lo studio SafeSharks e Medbycatch: tutelare gli squali per salvare il Mediterraneo, presentato dal Wwf, questo risulta il terzo più grande importatore di prodotti di squalo a livello globale, con circa 98 mila tonnellate di prodotti di squalo importati tra il 2009 e il 2021, di cui 1.712 tonnellate di pinne, per un valore di circa 377 milioni di dollari (circa 9 milioni per le pinne).

LA PETIZIONE EUROPEA. PER FORTUNA la sensibilità collettiva sta crescendo, tanto che gli stessi cittadini europei hanno recentemente lanciato la petizione Stop Finning per chiedere alla Commissione di vietare l’importazione, l’esportazione e il transito di pinne di qualsiasi tipo di pesce e di elaborare un nuovo regolamento che estenda la disposizione delle «pinne naturalmente attaccate al corpo» a ogni forma di commercio di squali e razze nell’Ue. L’obiettivo è stato ampiamente raggiunto, visto che le firme raccolte sono state oltre 1 milione e 200 mila. Questo obbliga la Commissione europea a pronunciarsi, cosa che dovrebbe avvenire entro il 20 ottobre.

«MA C’E’ ANCHE IL RISCHIO – DICE FALLERI – che la Commissione rifiuti l’iniziativa dei cittadini». Sarebbe un peccato, perché, dice Barbara Slee, manager Ue di IFAW per la Conservazione Marina, «l’Ue ha l’importante responsabilità di assicurare l’accuratezza dei registri commerciali e l’attuazione dei requisiti di sostenibilità degli squali in commercio. Se svolgesse pienamente il suo ruolo di leader riuscirebbe a spingere gli altri paesi a fare lo stesso».

DEL RESTO, COME AFFERMA STAN SHEA, direttore del Programma Marino Bloom Association Hong Kong e co-autore del rapporto di Ifaw, «il declino globale degli squali è dovuto alla domanda internazionale di pinne e carne ma anche alla diffusa mancanza di gestione. Le responsabilità, dunque, pesano in egual misura su chi consuma questi prodotti ma anche su chi opera attivamente nel loro commercio».

COSA POSSONO FARE I CONSUMATORI. Intanto nel dettagliato studio del Wwf è stato anche realizzato un inventario di prodotti e rivenditori di carne di squalo lungo le coste italiane (in particolare della Puglia) per valutare il rischio di etichettatura sbagliata. Solo il 35,7% delle pescherie esponeva etichette con il nome scientifico e/o nome comune dello squalo, mentre nessun banco nei mercati aveva etichette e le specie erano confuse tra loro. Squali e razze vengono spesso venduti senza la pelle, oppure in tranci e per i consumatori è difficile capire cosa stano acquistando. A ciò si aggiunge il problema delle frodi alimentari. La più comune riguarda proprio la verdesca venduta, spesso, come pesce spada.

IN UN RECENTE STUDIO E’ STATO SCOPERTO che su 80 campioni prelevati da venditori al dettaglio e grossisti di diverse tipologie, in ben 32 casi la verdesca e lo squalo mako venivano commercializzati come pesce spada. «Per evitare di consumare uno squalo è importante controllare attentamente le etichette. Inoltre è importante che tutti consumatori comincino a familiarizzare con la nomenclatura delle diverse specie: verdesca, gattuccio e palombo sono tutte specie di squali – raccomanda Eva Alessi,

Responsabile sostenibilità del Wwf. E’ indispensabile evitare l’acquisto dei prodotti senza etichetta, o con etichettatura incompleta, che non possano essere né identificati né tracciati. E ricordarsi che lo squalo non è presente solo sui banchi di pesce ma anche come ingrediente di molti prodotti estetici o integratori alimentari, sotto il nome di squalene, una sostanza estratta dal fegato dello squalo».