Europa

L’Europa a due guerre

In Italia, nel 2014, l’ammontare delle tasse e contributi pagati dagli immigrati ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui hanno usufruito. Ma c’è di più: essi hanno concorso alla creazione di ricchezza nella misura dell’8,8% del Pil

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 3 marzo 2016

Stiamo assistendo all’intrecciarsi di quella che è diventata ormai una guerra agli immigrati con gli interventi armati per ristabilire un ordine tardo coloniale nei paesi da cui provengono.

 

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Alla fine del 2014, le persone che avevano cercato di fuggire da guerre e conflitti interni assommavano a 55 milioni. Il maggior numero di loro, circa 34 milioni, veniva da Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Repubblica democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

La stragrande maggioranza ha trovato rifugio nei paesi vicini, spesso altrettanto poveri e non molto più stabili di quelli d’origine. Mentre, alla stessa data, il numero di quelli accolti nei 28 paesi dell’Unione europea sono stati poco più di un milione e altri 270mila negli Usa.

Oggi i profughi e richiedenti asilo si trovano di fronte a disponibilità all’accoglienza in cifre risibili o alla chiusura totale di frontiere e perfino divieti di transito. Rifiuti che non vengono solo dai paesi balcanici e dell’Est Europa, ma dai paesi più potenti, come Usa, Gran Bretagna, Francia, o più ricchi, come Austria, Belgio, Svezia, Danimarca, Finlandia. La relativa disponibilità della Germania si è andata vistosamente riducendo.

Mentre paesi geograficamente più raggiungibili, come l’Italia e la Grecia non fanno che reclamare la corresponsabilità dell’Unione.

Proprio tra i più indisponibili all’accoglienza si trovano gli stati che sono in prima fila nel promuovere azioni militari e fomentare conflitti interni nei paesi da cui fugge la maggior parte dei profughi. Fanno credere che i costosissimi interventi militari da essi promossi sono necessari per la sicurezza e il benessere dei loro paesi, e che i costi dell’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo sono insostenibili.

I fatti stanno molto diversamente. Prendiamo, ad esempio, il caso dell’Italia.

Nel 2015, il nostro paese ha impiegato poco più di 800 milioni di euro per la spesa complessiva di accoglienza dei rifugiati. Sempre nel 2015, il costo delle “missioni” militari italiane in alcuni dei paesi d’origine dei rifugiati è stato di un miliardo e mezzo di euro. Altre spese saranno da aggiungere per la spedizione militare che il governo sembra ansioso di promuovere in Libia.

La contraddizione tra indisponibilità a sostenere i costi dell’accoglienza e le spese delle azioni militari cui si partecipa, proprio nei paesi dei richiedenti asilo, è ancora più stridente in casi come quello della Gran Bretagna e della Francia. Ma considerazioni analoghe si possono fare per i paesi di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e altri oltranzisti nei confronti dei profughi. Stati che però partecipano spesso e volentieri alle coalizioni di “volenterosi” operanti in vari scacchieri.

Per parte loro, i rifugiati non vogliono essere mantenuti. Come gli altri immigrati, cercano lavoro e sperano d’inserirsi al più presto nei paesi meta. E anche su questo occorre considerare i dati di fatto.

Rifugiati e richiedenti asilo costituiscono una percentuale assai ridotta del numero complessivo degli immigrati di prima generazione e ufficialmente censiti nei paesi d’arrivo. Si va dallo 0,6% in Usa al 3,1% in Francia.

Quand’anche i rifugiati concorressero ad aumentare il numero complessivo degli immigrati in misura maggiore, va ribadito che gli uni e gli altri non rappresentano un gravame per la spesa pubblica, ma, al contrario, è dimostrato che essi rappresentano una risorsa.

Se torniamo a fare l’esempio dell’Italia, nel 2014, l’ammontare delle tasse e dei contributi pagati dagli immigrati ha superato di 4 miliardi il totale delle spese pubbliche per le politiche di accoglienza e tutti i servizi di welfare di cui hanno usufruito. Ma c’è di più: essi hanno concorso alla creazione di ricchezza nella misura dell’8,8% del Pil. E conti simili valgono anche per gli altri paesi che sono mete preferite degli immigrati. Ancor più importante è il loro contributo al riequilibrio demografico. Com’è ben noto, proprio nei paesi più sviluppati, la popolazione invecchia, sia per il calo della natalità che per l’aumento degli anni di vita. Il che significa che non bastano i continui tagli alla sanità e la riduzione della spesa pensionistica. Se vogliamo che quel che resta del sistema di welfare in Europa regga in qualche modo, occorre un rapido aumento della popolazione in età lavorativa. Per il raggiungimento di tale obiettivo, la popolazione europea dovrebbe aumentare di 42 milioni in 4 anni. Il che è concepibile solo attraverso massicci afflussi di immigrati.

Se lo stato delle cose è questo, occorre rispondere a due questioni.

La prima riguarda il fatto che, invece di governare in modo positivo il fenomeno migratorio, in diversi paesi dell’Ue l’immigrato è indicato come una minaccia per il benessere dei cittadini già residenti. Purtroppo, su questo terreno s’è innescata una competizione e strumentalizzazione elettorale che si va sempre più radicalizzando e che sfocia ormai in una sorta di guerra al migrante, dai Balcani al Canal della Manica.

La seconda risposta non è meno disarmante. Stiamo assistendo al protrarsi di logiche conflittuali e di predominio nella regolazione dei rapporti internazionali che si ritenevano superabili dopo la fine della guerra fredda.

Purtroppo, le speranze accesese nei primi anni Novanta con la cessata contrapposizione tra i due blocchi – speranze che rilanciarono il progetto di un’Europa unita, pacifica e aperta alla cooperazione nei rapporti internazionali – sono venute via via spegnendosi. Mentre si sono riproposte le vecchie strategie di espansione delle aree d’influenza e di scalata a posizioni di forza in una rigida gerarchia dei rapporti internazionali. Un paradigma che non può non alimentare forme, più o meno latenti, di tensioni e conflitti.

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