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Lettura prismatica di Cartier-Bresson

Lettura prismatica di Cartier-BressonWin Wenders, "Á la recherche du regard de Cartier-Bresson"

A Venezia, Palazzo Grassi, "Le grand jeu", a cura di Matthieu Humery Pinault, Leibovitz, Cercas, Wenders, Aubenas selezionano il loro Henri Cartier-Bresson e lo allestiscono... Una mostra di mostre a partire dal corpus che il maestro approntò nel 1973: la Master Collection

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 6 dicembre 2020

Henri Cartier-Bresson è stato uno dei nomi più presenti nel panorama espositivo dell’ultimo ventennio, con mostre importanti ma anche in occasioni poco controllate, espressione dell’odierno catering culturale. La mostra veneziana di Palazzo Grassi è iniziativa di notevole caratura, un progetto ambizioso, intrigante e, in certi aspetti, persino ‘difficile’.
Le grand jeu, visitabile fino al 20 marzo, più che una mostra in sé è un sistema di mostre sul fotografo francese, ciascuna costruita con criteri di cernita delle immagini e di allestimento squisitamente soggettivi. Realizzata in collaborazione con la Bibliothèque National de France, presso cui sarà ospitata a seguire, e con la Fondation Cartier-Bresson, propone dei percorsi differenti a partire dalla Master Collection, un corpus di 385 scatti stampati nelle medesime dimensioni (24 x 36 centimetri, con orientamento sia orizzontale che verticale) che nel 1973 il maestro aveva selezionato, su sollecitazione dei collezionisti John e Dominique de Menil, quale sintesi conclusiva di tutto il lavoro fotografico condotto nella propria vita. L’ideatore del progetto veneziano Matthieu Humery ha così chiesto a cinque persone con professioni, gusti e immaginari differenti – il collezionista François Pinault, la fotografa Annie Leibovitz, lo scrittore Javier Cercas, il regista Wim Wenders e la storica della fotografia Sylvie Aubenas – di sviluppare ciascuna un percorso attraverso una scelta di una cinquantina di immagini, allestendo le fotografie in modo del tutto libero per collocazione, scelta delle cornici, illuminazione: come capiterebbe nel cinema se cinque montatori fossero invitati a realizzare film diversi a partire dal medesimo girato.
L’assunto di base – leggere secondo una libera modalità l’opera di Cartier-Bresson – è perfettamente consonante, del resto, con l’approccio che il fotografo aveva adottato all’inizio degli anni settanta realizzando la Master Collection, in cui, scrive Humery in catalogo, «ha voluto consegnare la propria selezione in un ordine più o meno aleatorio e senza giustificazioni, in modo da affermare la soggettività ed evitare alla sua opera qualsiasi interpretazione oggettivista o storicista». Era lo stesso Cartier a spiegare, ormai maturo, di «dovere riconoscenza al surrealismo perché mi ha insegnato a scavare con l’obiettivo fra le rovine dell’inconscio e del caso».
È così un Cartier-Bresson poliedrico quello che si presenta al visitatore, con cinque aree espositive autonome, che talvolta ospitano le medesime immagini ma che mai si sovrappongono per ‘atmosfera’ ed esiti critici. Il primo percorso che si incrocia, caratterizzato da cornici bianche e da una collocazione a doppia fila pulita ma forse un po’ rigida, è quello di Pinault, il collezionista magnate, padrone di casa, che presenta svariati ritratti ma si concentra soprattutto sui tipici soggetti ‘di spensieratezza’, persone che chiacchierano, cantano, fumano o mangiano. L’esempio più celebre è probabilmente Dimanche sur les bords de Seine (1938), dove quattro amici di mezz’età (presi di spalle) fanno il picnic sul lungofiume annaffiandolo con la piacevolezza del vino bevuto insieme.
La selezione di Annie Leibovitz, allestita con cornici nere in un’unica sala illuminata ambientalmente, mette in rilievo le ricorrenze compositive e le affinità iconografiche in alcune delle immagini (architetture, volumi o simmetrie, come per esempio in Square du Vert Galant et du Pont Neuf, Île de la Cité, 1951). Leibovitz, che in catalogo racconta quanto la sua stessa decisione di diventare fotografa debba alla scoperta da studente di Cartier-Bresson, sceglie infatti di esporre le foto in gruppi ‘analogici’ che finiscono per comporre un’opera-dispositivo particolarmente intrigante, dove l’osservatore è messo in condizione di cogliere, insieme al dato fotografico di partenza, anche il ruolo concettualizzante dell’interprete.
Le luci si abbassano nella sezione realizzata da Javier Cercas, politicamente impegnata ed emotivamente più densa: i ritratti degli scrittori, le vicende della guerra civile spagnola, altri aspetti più onirico-surreali trasferiscono uno strano senso di vuoto, una mancanza, un distacco. Scrive Cercas in catalogo: «L’essenziale sembra trovarsi non all’interno della foto stessa, nell’inquadratura, ma al di fuori, come se il centro dell’immagine fosse assente», o semplicemente altrove, «nell’illusione di un senso o nell’imminenza di una rivelazione che non si produce».
E l’attesa è anche la chiave di lettura di Wim Wenders, che sceglie di mostrare anche un breve video e allestisce le foto al buio, teatralmente, con una luce sagomata per ciascuna immagine. Il regista tedesco sottolinea come molte delle foto mostrino uomini che guardano qualcuno o qualcosa, dandoci le spalle, e «spingendoci a condividere il loro desiderio di guardare. Una prospettiva molto comune nella pittura romantica, come in Caspar David Friedrich», e di cui un esempio significativo e intenso è Mur de Berlin-Ouest (1962), in cui tre uomini guardano al di là della barriera di cemento costruita nella città.
La mostra si conclude con la proposta di Aubenas, molto razionale dal punto di vista iconologico, viziata però dalla scelta di cornici color legno, massicce e cromaticamente invasive, che di certo non favoriscono la concentrazione d’immagine.
Le grand jeu sarebbe piaciuta a George Perec: è una mostra che merita la visita perché inaspettata, prismatica, e in grado di attivare lo spettatore proprio per le molteplici domande che essa stessa, nel suo svolgersi, lascia inevase. Non ultimo, può essere letta anche come una sorta di meta-mostra su come curare le mostre, in alternativa al mainstream espositivo che conduce alla monosemia del pensiero unico.

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