Lettere e fratture tra un maestro e l’allievo volontario
Carteggio Fortini-Giudici Nel 1958 divisero l’ufficio alla Olivetti: ne scaturì uno scambio di lettere (con versi) su temi socio-letterari, ora raccolto da Olschki: alla lunga vinse la distanza ideologica tra i due
Carteggio Fortini-Giudici Nel 1958 divisero l’ufficio alla Olivetti: ne scaturì uno scambio di lettere (con versi) su temi socio-letterari, ora raccolto da Olschki: alla lunga vinse la distanza ideologica tra i due
Il dialogo è un dispositivo retorico tra i più caratteristici nella poesia italiana del secondo Novecento; la sua funzione è spesso quella di far scivolare il verso in direzione del post-lirico, se non della prosa. È un fenomeno noto e studiato, specialmente sul piano stilistico. Non ci si ferma abbastanza a osservare però che il dialogo è anche il riflesso diretto di una condizione culturale e personale vissuta dai poeti che hanno concepito la scrittura ed elaborato le loro opere avendo in mente un interlocutore reale: quasi sempre un altro poeta o scrittore, maestro amico rivale, che ha provocato la scelta di temi, l’adozione di forme, l’espressione di idee.
Il modo migliore per rendersi conto di quanto la letteratura e soprattutto la poesia del secondo Novecento siano effetto di questa tensione, anche polemica, verso un destinatario è leggere i carteggi, che non sono complementi eruditi all’opera creativa, ma loro indispensabili premesse. Ciò vale specialmente per gli autori che, nelle lettere e negli altri scritti, hanno strenuamente esercitato la funzione di reagente e a volte di necessario assillo nei confronti dei propri corrispondenti. Franco Fortini è tra questi autori, come mostra il suo vastissimo epistolario, su cui lavora in questi anni una leva di ricercatori in Italia (in particolare a Siena, dove è conservato l’archivio fortiniano) e all’estero (per esempio a Losanna, in Svizzera). Si deve a un giovane studioso attivo proprio in Svizzera, a Lugano, un’edizione che conferma molte delle osservazioni fin qui fatte sul nesso tra poesia e scrittura epistolare: Franco Fortini-Giovanni Giudici, Carteggio 1959-1993, a cura di Riccardo Corcione (Olschki, pp. IV-222, euro 25,00).
Nel luglio del 1958 i due poeti si erano trovati a dividere il medesimo ufficio presso la Direzione Pubblicità e Stampa nella sede milanese della Olivetti. Da quest’esperienza scaturirà un lungo dialogo, destinato a protrarsi fino al novembre del ’93 (un anno quasi esatto prima della morte di Fortini). All’ampiezza dell’arco cronologico non corrisponde una quantità particolarmente cospicua di documenti: 66 lettere, conservate al Centro APICE dell’Università di Milano e al Centro Fortini dell’Università di Siena. Il curatore ha però aggiunto, opportunamente, in appendice al corpus una serie notevole di appunti di Giudici su Fortini, tratti dalle agende personali tenute dal poeta negli anni sessanta e novanta (anche questo importante materiale è custodito presso il Centro APICE). Trascritte con scrupolo, le lettere sono corredate da un’annotazione discreta, essenzialmente bibliografica e denotativa (avrebbe giovato qualche chiosa in più di commento vero e proprio, data la densità delle argomentazioni con cui i due corrispondenti si confrontano reciprocamente). Nell’ampio saggio introduttivo, Corcione annoda con perizia i fili tra opere e lettere, per esempio sottolineando il parallelo tra Verifica dei poteri di Fortini e La vita in versi di Giudici. Le due opere, entrambe uscite nel 1965, condividono la riflessione di fondo sul rapporto tra l’io e un ordine che lo trascende, sia questo di natura metafisica o politica: «Da qui – scrive Corcione – deriva la sovrapposizione interiore della doppia escatologia cattolica e comunista a cui (…) Giudici rimane fedele nei termini di una Weltanschauung».
Nelle prime battute del carteggio è soprattutto Giudici a interpellare Fortini, più anziano di soli sette anni e ciononostante riconosciuto subito come maestro. D’altra parte il ruolo di ‘allievo’ volontario ha il suo prezzo; il 20 aprile del ’61 Giudici annota nella sua agenda: «Questo Fortini è veramente irritante. (…) Ma l’assurdo sono io che sollecito da lui una patente, un riconoscimento di progressismo e di democraticità». In cambio, ne riceve i fondamenti di una formazione culturale nutrita dalle autorità, tra gli altri, di Lukács, Benjamin, Barthes, Noventa, don Milani. Appena sei mesi dopo l’incontro, Giudici compone i Versi per un interlocutore: è una «poesia notevolissima – commenta Fortini nella prima lettera del carteggio (scritta dopo il dicembre ’58) – di gran lunga superiore a quanto dà, oggi, il genere. Mi riconosco in parte nell’interlocutore; e ti sei saputo intrecciare affettuosamente al mio “Al di là della speranza”».
Ma il dialogo, pur avviato sul filo della poesia, s’instaura tra due intellettuali più che tra due poeti. Nelle lettere, peraltro spesso accompagnate dai rispettivi versi, rare sono le osservazioni specifiche sulle ragioni dei testi; il piano su cui avviene lo scambio è prevalentemente ideologico e socio-letterario. I temi ricorrenti sono la relazione tra scrittore e industria culturale e la dimensione politica della letteratura, questioni alla luce delle quali si determinano le ipotesi di schieramento e intervento che Giudici sottopone a Fortini, impegnandosi (e a volte incagliandosi) in lunghe disamine ispirate dall’esempio e dagli scritti del destinatario. Sono di particolare importanza le lettere che Giudici scrive tra il 1963 (anche come vaglio e rifiuto delle soluzioni neoavanguardiste: «una giusta interpretazione politica della situazione dovrebbe concludere sulla necessità di scegliere la famosa maschera non nel guardaroba novissimo, ma nel guardaroba tradizionale»: lettera del 24 febbraio) e il 1964, ispirate dalla riflessione sull’alternativa fra «letteratura della letteratura» e «letteratura della vita». Cruciali, nello stesso periodo, le lettere di risposta inviate da Fortini, in particolare quella del 1 gennaio 1964. Si «potrebbe proprio, all’ingrosso, ricondurre le varietà italiane contemporanee a quattro gruppi» osserva Fortini: quello che nega «il presente metafisico religiosamente in modo quietistico-contemplativo» (che avrebbe in Bo il suo rappresentante emblematico); «quello che lo fa in modo drammatico attivo» (come lo stesso Giudici); «quello che nega il presente in modo storicistico-sociologico o laico, per così dire, ma in modo quietistico-contemplativo» (il nome associato a questa categoria è quello di Sereni); infine, il gruppo di «quelli che in modo storicistico-sociologico vogliono sentire in chiave drammatico-attivistica» (cui lo stesso Fortini si assegna). Le idiosincrasie e le affinità sono tipicamente fortiniane; caratteristico è il modo di procedere nell’analisi e nella replica. Sembra che Fortini ne sia cosciente, al punto da concedersi, nella medesima lettera, il privilegio autoironico di fare la parodia di sé stesso: «Sai che per me è indiscutibile che si debba cominciare dall’universo». In questo senso, il carteggio parrebbe aggiungere poco all’immagine e alla conoscenza dell’autore: qui Fortini è Fortini, per così dire, al quadrato. Sennonché, a emergere è il suo ruolo maieutico, la sua capacità di stimolare nell’interlocutore il confronto sulle questioni da lui stesso poste come centrali. È la figura del maestro che il carteggio ci consegna; nemmeno questo, certo, è un profilo inedito, ma colpisce rilevare l’importanza di Fortini per un autore che, come Giudici, seguirà altre strade e raggiungerà altri approdi sia poetici sia ideologici. In effetti, il carteggio da un lato consolida l’immagine di Fortini come pivot critico del secondo Novecento letterario, dall’altro illumina una fase determinante della formazione di Giudici che non si ricava immediatamente dai suoi testi.
Negli anni il rapporto s’incrina, per poi cambiare di segno e farsi meno aperto, ma anche più paritario. La prima frattura si era prodotta nel 1967, quando alcune circostanze avevano messo in luce la distanza ideologica tra i due poeti. Durante un viaggio a Praga, Giudici aveva manifestato le proprie simpatie verso il «socialismo dal volto umano» di Dubcek; nello stesso periodo, aveva cominciato a collaborare con «l’Espresso», settimanale ritenuto troppo coinvolto proprio nelle dinamiche dell’industria culturale di cui Fortini e Giudici avevano discusso nelle loro lettere. La rottura si consumerà tra la fine del ’69 e l’inizio del ’70; ma Giudici, che nell’ultima lettera a Fortini si dichiarerà ancora suo «vecchio “alunno” ed amico», non smetterà di considerarlo un interlocutore privilegiato. «Ti leggo ogni tanto, con vario grado di consenso – scriveva Giudici nell’ottobre del 1983 – Ma ciò mi sembra of minor relevancy. Mentre è more relevant (per me, per la mia coscienza) che io mi senta mosso questa sera, a scriverti, per renderti – ancora una volta – testimonianza».
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