Visioni

Letizia Battaglia: «Ho preso l’amore là dove c’era»

Letizia Battaglia: «Ho preso l’amore là dove c’era»Letizia Battaglia

Incontri Palermo, la mafia, le immagini. La fotografa sarà al Festival di Venezia nel nuovo film di Franco Maresco, «La mafia non è più quella di una volta»

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 25 agosto 2019

La sua Palermo è sotto una cappa di umidità. Lei apre la porta avvolta in un lungo e svolazzante abito multicolore, come i quadri appesi alle pareti del suo soggiorno dove, prima dell’intervista, offre gelo di mellone che le ha appena portato un’amica. «Parliamo subito che mi stanco in fretta. Da quando sono caduta inciampando nel guinzaglio del cane, pochi anni fa, la mia schiena chiede riposo». Dietro di noi un ventilatore muove il suo caschetto biondo rosato. «Dovrebbe essere fucsia, ma il colore sbiadisce a ogni shampoo».
Letizia Battaglia, un pezzo di storia del fotogiornalismo italiano, a ottantaquattro anni sta raccogliendo i riconoscimenti che quando lavorava per «L’ora» di Palermo fotografando delitti di mafia, bambini e donne dei quartieri più poveri le erano negati. Una ricca antologica al Maxxi di Roma nel 2016, una recente mostra con molti inediti al Tre oci di Venezia, il documentario Shooting the mafia, di Kim Longinatto, sulla sua storia di donna e fotografa uscito lo scorso gennaio, e ora è fra i protagonisti di La mafia non è più quella di una volta, film diretto da Franco Maresco e in concorso al prossimo Festival di Venezia. «Mi hanno pure chiesto due libri – aggiunge lei – e Roberto Andò sta preparando quattro puntate sulla mia vita. Per caso hai dei fiammiferi?».
Dare del lei a Letizia Battaglia è impossibile. I fiammiferi non li ho, ma un accendino sì e così parleremo scambiandocelo. Difficile starle dietro come fumatrice. In due ore vincerà quattro a uno, più o meno.

Come spieghi questo interesse per te e le tue foto proprio adesso?

Non lo so, ma meglio a ottantaquattro anni che niente. All’inizio ero una fotografa non apprezzata, anzi avevo solo problemi. Facevano le collettive e non mi invitavano, facevano i libri e io non c’ero mai, eppure gli scatti che ho fatto negli anni Settanta e Ottanta sono gli stessi che ora si vedono nei musei. Poi nell’85 Lanfranco Colombo mi organizza una mostra a Milano e manda le mie foto a New York all’Eugene Smith, il premio più importante della fotografia sociale. Vinco ex aequo con Donna Ferrato. Quando l’ho saputo ho pianto perché non ti immagini che cosa significa essere stata trascurata per tanti anni, con tutta la paura per quello che andavo facendo, e avere questo premio importantissimo. Poco dopo mi dico che voglio fare di più per Palermo che per me è un amore nato con il tempo e il dolore. Mi candido con i verdi, divento consigliere comunale, assessore, poi deputata regionale e per dieci anni la fotografia esce dalla mia vita. È stato bellissimo lavorare con Leoluca Orlando, mentre la deputata regionale è stata una schifezza perché non ci lasciavano fare nulla. Nel frattempo «L’ora» chiude e finisce la storia di fotografa, perché se non hai un quotidiano dietro, come vai a fare le foto? La mafia come l’ho raccontata io la fai giorno per giorno, notte per notte, per diciotto anni di lavoro intenso. Piano piano ho fatto mostre, sempre con pochi soldi e senza gallerie che mi appoggiavano e non so come sono arrivata a essere riconosciuta. Forse le mie foto sono universali nel senso che hanno un significato anche ora e non solo per Palermo. Adesso ho una mostra in Brasile e migliaia di gente sta andando a vederla perché non è solo cronaca, c’è anche una partecipazione mia.

Facciamo un esempio. Prendiamo lo scatto dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Arrivi per prima, ti chini all’altezza del morto dentro l’auto, in primo piano ci sono le sue gambe, sullo sfondo il profilo illuminato di Sergio Mattarella che regge il capo del fratello, dentro l’abitacolo, i corpi della moglie e della figlia disegnano un arco. In quell’immagine ci sono sia la violenza che il dolore composto.

Quella foto fu fatta in un secondo, à la sauvette come diceva Cartier Bresson. Che cos’è il supporto di un fotografo?È quello che lui sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato, meditato. In quel secondo converge tutto, il tuo amore, il tuo odio, la tua rabbia, il tuo rispetto. In realtà non lo so cosa facevo. Facevo quello che dovevo fare. So solo che l’istinto mi portava a cercare il rispetto della situazione, che vuol dire che attorno alla morte deve esserci silenzio.

E poi ci sono le foto delle donne e dei bambini.

Con loro riuscivo a creare complicità. Quello lo sento ancora adesso che quando vedo una bambina così me la succhio ed è una questione di secondi perché poi si perde l’attimo.

Com’è cambiata Palermo da allora?

Molto e grazie a Orlando che ne ha fatte di cotte e di crude per smuovere la città e renderla viva. Se vai nel centro storico vedi i tavolini fuori e la gente seduta. Quando ero assessora io, di notte lì non si camminava, ammazzavano. Orlando pagò dei gruppi musicali perché suonassero davanti ai ristoranti. Piano piano, da questa cosa è nata un’altra cosa, un tavolino e poi un altro, un bar, un caffè. Questo per voi del nord non è niente, per noi è stata una grande conquista. E poi le donne si sono emancipate, mentre gli uomini stanno ancora lì a pensare che ruolo darsi. Oggi è bellissimo vedere passare queste ragazze del popolo con il culo di fuori, ragazze che fino a pochi anni fa i padri le avrebbero ammazzate se solo si fossero affacciate al balcone. È una conquista? No, è una moda che però mostra come oggi possono non avere più paura di un padre.

Che cosa fai nel film di Franco Maresco?

La protagonista, quella che parla contro la mafia anche se non è un film su di me. Non l’ho ancora visto e ho detto a Franco che se non lo vedo prima, non vado a Venezia.

Sei vanitosa?

No. Non faccio massaggi, non vado dall’estetista. Sono vanitosa in altro modo.

Per esempio?

Sono un’imperatrice di me stessa. Non vado cercando nessuno, non vado imperando nessuno, però chi viene nel mio regno deve rispettarmi.

E dell’amore che mi dici?

Io ho avuto un marito che ho amato molto a sedici anni, quando lo sposai. Poi lui ha cominciato a sbagliare con me e io non lo amai più. Era nervoso, dava importanza a cretinaggini, non potevo studiare, non potevo lavorare, non capiva la mia vivacità e mi bloccava come poteva. Io ho continuato a vivere. Là dove c’era l’amore l’ho preso. Volli separarmi. Quando il giudice decise di affidare le nostre tre figlie a lui io, in quel tribunale che molti anni dopo avrei frequentato come fotografa, mi accasciai e urlai, urlai disperata. Per poter continuare a vedere le mie figlie rimasi altri dieci anni con mio marito, ma non lo amavo più. Poi quando ho cominciato a lavorare ho sentito che mi rispettava, ma ero già lontana. Alla fine della sua vita gli sono stata molto vicina, ho ripreso dopo venticinque anni ad avere un affetto come padre delle mie figlie ed è stato bello prendermi cura di lui, eliminare i rancori, annullare il risentimento. Non mi piacciono l’odio e il rancore. Ho avuto una vita amorosa com’è giusto che sia. Oltre a mio marito ho avuto due amori importanti, sempre fotografi. Ora ho una specie di compagno, Roberto, con il quale non ho rapporti sessuali perché non voglio più, ho il corpo vecchio, basta. Ci vogliamo bene tantissimo, ci sentiamo spesso, ha quarant’anni meno di me e condividiamo interessi e infatti è fotografo, per cui io lo stimolo e questa cosa mi piace molto.

Domanda cattiva. Non temi di essere usata da lui per via della tua fama?

Potrebbe anche essere, ed è ovvio. Però mi vuole bene e lo sento. Non sono scimunita, sono complice sua e avere complicità implica la verità. Se ci sono bugie, tutto è finito.

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