«Perché il vostro governo non vuole che colpiamo la Russia?». È abbastanza frequente sentirsi porre questa domanda ultimamente nelle zone limitrofe al fronte. E non soltanto dai soldati. Il peggioramento della situazione militare ha costretto i civili ucraini a una scelta: abbandonarsi allo sconforto oppure adeguarsi alla versione del governo di Kiev.

La maggior parte ha scelto la seconda opzione e non possiamo biasimarli. Credere, o fingere di credere, alla propaganda di guerra vuol dire credere ancora che le cose si possano sistemare, in un modo o nell’altro. Illusione? No, solo un normale meccanismo di autodifesa. In ogni caso, ciò che conta è non chiedersi mai quando finirà. Neanche la tv ne parla più. Anche perché le ultime dichiarazioni di questo tipo (ricordate i titoli su «la controffensiva che porrà fine al conflitto»?) hanno lasciato il vuoto nell’animo dei civili.

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E QUINDI NESSUNA fantasticheria sul domani, ma solo un eterno presente che si ripete uguale ogni giorno. Tranne quando bombardano molto vicino a dove siamo, in quel caso si apre una voragine nella quotidianità della guerra fatta di sirene e paura improvvisa. Una volta nascosto il vuoto si torna a «se solo arrivassero i Patriot più in fretta», come dicevano i funzionari ucraini di fronte al centro commerciale Epicentr bombardato sabato scorso o «se solo ci forniste gli F-16» come dicono spesso i militari. E la lista potrebbe riempire tutte le righe di quest’articolo, ma non serve ricordarla. L’unica postilla necessaria riguarda le regole d’ingaggio. Eccovi le armi, si è detto per due anni, ma a patto che… Ora quei patti sono messi in discussione. E gli ucraini sperano che siano infranti. Perché sono degli irresponsabili che non capiscono le implicazioni di un eventuale attacco sul suolo russo con armi della Nato mentre da Mosca tuonano lampi di «deterrenza nucleare»? No, per il semplice fatto che tutti qui vedono i propri cari partire e morire.

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Il fatto è che bisogna arrendersi a compiere (almeno) una distinzione di base: la logica di pace non è la logica di guerra. Non dobbiamo essere d’accordo ma dobbiamo capirlo. Quando i civili che incontriamo nei bar di Kharkiv ascoltano la tv che dice «il tale primo ministro ha dichiarato che non invierà mai le truppe in Ucraina» non ragionano come noi. Nonostante siano passati 27 mesi agli europei quest’assunto banale non è entrato in testa. Certo, se a loro non interessa delle conseguenze, potrebbe rispondere un qualsiasi nostro connazionale, perché dovrebbe interessare a noi della loro sorte.

Ma l’Ucraina è tappezzata di manifesti che ricordano «l’ultimo baluardo della democrazia contro la barbarie russa» e siamo stati noi a dirgli che era così. Inoltre ogni villaggio e ogni quartiere delle grandi città ricorda con murales, fotografie, fiori e candele i propri morti.

IL DOLORE del lutto misto alla convinzione di essere dalla parte giusta della storia creano una logica dogmatica. Che rima con la solita frase, ripetuta da quasi tutti qui: «Non è la nostra guerra contro la Russia, è la guerra dell’Europa contro la Russia». E Il presidente Zelensky era la personificazione di quella lotta contro la barbarie. Ma, come tutti i simboli, anche Zelensky ha iniziato a offuscarsi. Gli ultimi sondaggi condotti per conto dell’Economist dicevano che la popolarità del leader ucraino è in caduta libera. Lo stesso leader che da due settimane è presidente fuori mandato e per tutto il tempo necessario, secondo la legge marziale. Gli ucraini non lo amano incondizionatamente come all’inizio, qualcuno se ne lamenta apertamente. Persino i militari al fronte non ne parlano più con piacere. Ma tutti sembrano d’accordo sul fatto che non c’è alternativa, non per scarsa abitudine ai processi democratici ma per il più spietato pragmatismo. «Se ne parlerà dopo la fine della guerra» dicono in molti, convinti che una crisi di governo regalerebbe il Paese ai russi.

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Si torna, dunque, al punto iniziale, la differenza è tra il ragionamento in tempo di pace e quello in tempo di guerra. Il che ci porta a una conclusione. Prima che questa guerra si trasformi nel Vietnam, nell’Afghanistan o nell’Iraq esiste qualcuno che abbia il coraggio di dire agli Ucraini: vi abbiamo illuso? Difficile.

BASTEREBBE fare un giro nei quartieri popolari di Kharkiv, come a Saltivka, dove un palazzo ogni due cade a pezzi a causa delle bombe russe e parlare con una sola delle anziane che tengono la foto incorniciata del figlio caduto sul tavolo in salone. Più facile sarebbe dire semplicemente: ora basta. Come abbiamo già visto molte altre volte. Viene da chiedersi: gli ucraini meritano di arrivare a quel punto o possiamo aiutarli davvero a trovare una risoluzione a questo conflitto prima di abbandonarli come, inevitabilmente, succederà prima o poi?