Ci fu all’inizio dello scorso anno un acceso dibattito, a vari livelli e in diverse sedi, sulla fornitura all’Ucraina di carri armati M1 Abrams, macchine da guerra molto costose e complesse e, si pensava, tali da consentire alle forze ucraine una maggiore capacità di reazione, fino al punto da essere considerate dai russi un provocatorio, inaccettabile salto di qualità offensivo. Non c’è voluto molto per capire quanto in realtà quegli enormi mostri blindati fossero ormai obsoleti per la loro vulnerabilità agli attacchi kamikaze dei minuscoli droni FPV russi, congegni aerei superleggeri facilmente manovrabili da soldati a terra, producibili a basso costo in grande quantità.

La Cnn ha mandato di recente in onda un’inchiesta che documenta la grottesca condizione al fronte di sei di questi giganti cingolati fermi, nascosti dal fogliame, praticamente inutilizzabili, anche per ripetuti guasti, difficoltà di manutenzione e mancanza di carburante.

Furono un grazioso dono di Biden, i 31 Abrams, testimonianza dell’«impegno duraturo e indefettibile» dell’America al fianco dell’Ucraina, un regalo che ebbe l’effetto di provocare un’ulteriore escalation del conflitto, senza neppure produrre un maggiore rafforzamento dell’apparato militare ucraino, anzi, un suo indebolimento.

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Quanti passi del genere ci sono stati nel corso dei 27 mesi del guerra in Ucraina? Quanta imperizia strategica si è mescolata con improvvisazione politica? Quante scelte, specie negli ultimi mesi, sono state dettate da calcoli di politica interna in un anno elettorale per gli Usa e per l’Europa?

Domande che chiamano in causa innanzitutto gli americani, i maggiori «azionisti» della Nato e i più impegnati a sostegno di Kiev, ma anche gli alleati europei, mentre si profila un’altra fase caratterizzata dall’ennesimo innalzamento del livello dello scontro con forniture di armamenti offensivi di lungo raggio all’Ucraina, autorizzati a colpire i russi nel loro territorio, un innalzamento del livello dello scontro questa volta ancora più carico di conseguenze e rischi, compreso quello di uno scivolamento verso il conflitto nucleare. Putin ormai ha messo il ricorso all’atomica nel suo normale repertorio retorico.

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A Praga sono riuniti i ministri degli esteri della Nato, un conclave dove sembra ancora una volta dominare il pericoloso combinato di imperizia strategica e improvvisazione politica, con l’aggravante di un peso sempre maggiore dei falchi, con in testa Emmanuel Macron, sul versante europeo, e i membri dell’amministrazione Biden che rappresentano gli interessi del complesso militare industriale, la corrente guidata da Antony Blinken, alias il suggeritore del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Il segretario di stato è il più influente di questa corrente, più dello stesso capo del Pentagono, Lloyd Austin, spesso infatti impegnato in missioni lontane dalle principali aree di conflitto in Europa e Medio Oriente.

I 61 miliardi dollari in assistenza militare destinati all’Ucraina – la firma di Joe Biden è del 24 aprile scorso – insieme agli altri 34 destinati a Israele e Taiwan, sono un pacchetto non di aiuti, ma elettorale, visto che il grosso dei dollari stanziati resterà in America per la produzione di armamenti in fabbriche americane, per poi essere testate sul terreno in Ucraina. Joe Biden non si è ancora pronunciato sull’invio di armi di lunga gittata, in bilico com’è tra scelte strategiche che non farebbero altro che alimentare il conflitto e decisioni politiche utili per la sua rielezione, in stati dove è marcata la presenza del complesso militare industriale, con il suo indotto. Un’escalation del conflitto in Ucraina, combinata con l’esasperazione della guerra israeliana a Gaza, non è certo auspicabile nella fase finale della campagna elettorale, di fronte a un avversario che può agevolmente incalzarlo, ora atteggiandosi a falco ora a colomba, pur di mettere in evidenza gli ondeggiamenti della leadership di Biden.

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Come con Israele, l’influenza del rockettaro Blinken ha indotto il presidente a passi di progressivi cedimenti all’incontinenza distruttiva di Netanyahu, anche con l’Ucraina Biden sembra dar ascolto al segretario di stato, non disponendo di un contrappeso come è sempre stato per un presidente il consigliere per la sicurezza nazionale che ha diretto accesso allo studio ovale. Da quello attuale, Jake Sullivan, non ci si aspetta che sia del calibro di un Brzezinski o di un Kissinger, però è un esperto di politica internazionale che su Foreign Affairs scrive un saggio, pubblicato cinque giorni prima del 7 ottobre 2023, in cui sostiene che «il Medio oriente non è mai stato così tranquillo da decenni» e «abbiamo de-scalato le crisi a Gaza».

Non si capisce come ci si possa sentire al sicuro sotto l’ombrello di una Nato così, che ormai va avanti alla giornata, con mosse à la carte, e come possa essere considerata eresia l’apertura di una discussione onesta sulla sua stessa esistenza, un dibattito peraltro che gli europei saranno comunque costretti ad aprire, se Donald Trump sarà eletto presidente il prossimo 5 novembre.