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L’eterno fascino della musa cantata

L’eterno fascino della musa cantataDoug Fieger, voce e chitarra dei Knack, con Sharona Alperin, ispiratrice della canzone "My Sharona"

Storie/Dieci grandi classici internazionali ispirati a persone realmente esistite, entrate a far parte dell’immaginario collettivo Figure femminili amate, agognate, celebrate. Come il rock ha spesso ricalcato l’antica tradizione di poeti e scrittori. Non solo grandi amori o relazioni pericolose, anche sentiti tributi a madri scomparse troppo presto o all’operato di assistenti sociali

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 19 gennaio 2019

Beatrice Portinari, detta Bice, morì a soli ventiquattro anni a Firenze nel 1290, la sua breve vita terrena ispirò una delle più grandi opere poetiche dell’umanità, la Divina Commedia. Teresa Fattorini era figlia di un cocchiere e Giacomo Leopardi trovò in lei un «non so che di divino». Scomparsa a vent’anni per colpa della tisi, divenne, col nome di Silvia, protagonista di una delle più celebri liriche dell’Ottocento italiano. Dalla Lesbia di Catullo alla Clizia di Montale, la storia della poesia è scandita da donne reali, trasfigurate nei versi degli autori in figure divine o fin troppo terrene: donne amate, ammirate, agognate, sedotte o abbandonate. Il mondo della musica ha saputo inserirsi in questa tradizione, celebrando nei testi delle canzoni persone reali che col passare del tempo sono diventate figure parte di un immaginario collettivo. Eccone alcuni esempi.

BUDDY HOLLY «PEGGY SUE»

Peggy Sue e Buddy Holly si incontrarono a metà degli anni Cinquanta a Lubbock, una città del Texas nota solo per essere stata uno dei primi luoghi in cui si sono segnalati avvistamenti di Ufo. Lui era un musicista alle prime armi destinato a diventare una star. Lei, che di cognome faceva Garron, una studentessa liceale. Buddy stava andando a suonare ed era di fretta, era per strada con la chitarra in una mano e un amplificatore nell’altra. Urtò accidentalmente Peggy Sue. Tra i due non scoppiò l’amore. L’amore scoppiò invece tra la ragazza e il batterista di Holly, Jerry Allison. Pochi mesi dopo, Buddy Holly e la sua band, i Crickets, incisero il brano Peggy Sue. Allison aveva litigato con la sua fidanzata e voleva fare pace e convinse Buddy a cambiare il testo della canzone che il cantante voleva dedicare alla nipote Cindy Lou. Peggy Sue fu una straordinaria hit e il gruppo decise di registrare anche un seguito Peggy Sue Got Married. Ma quando uscì il sequel, Buddy Holly era già morto in un tragico incidente aereo. Aveva ventidue anni. Avrebbe potuto diventare grande come Elvis. Jerry e Peggy Sue si sposarono. Il loro matrimonio, preannunciato dalla canzone, non durò molto e divorziarono. Lui continuò a suonare nei Crickets per tenere viva la memoria del cantante scomparso troppo presto, lei andò in California dove si risposò, ebbe due figli e lavorò come assistente per un dentista e poi nella ditta di idraulica del marito. È tornata poi a Lubbock. È morta in Texas lo scorso ottobre a 78 anni. Aveva scritto un libro di memorie dove ricordava la prima volta in cui ascoltò la canzone che porta il suo nome nell’auditorium del liceo. Ai tempi era la «sua» canzone, oggi appartiene alla storia del rock.

BOB DYLAN «GIRL FROM THE NORTH COUNTRY»

Nel gennaio 2018 il giornale locale di Minneapolis, lo Star Tribune, riportava la notizia della morte di una ex residente della vicina Duluth, la settantacinquenne Echo Star Helstrom che da anni viveva in California. Pochissimi i dettagli sulla sua morte, altrettanto scarni quelli sulla sua vita. Eppure la notizia ha fatto il giro del mondo. Echo infatti era stata la musa di una delle più celebri, e belle, canzoni del giovane Bob Dylan: la ballata Girl from the North Country. Helstrom era cresciuta con l’allora Bobby Zimmerman a Hibbing in Minnesota. Frequentavano la stessa scuola superiore e avevano avuto una relazione: intensa, breve, ma indimenticabile come ogni passione adolescenziale. Fu lo scrittore Toby Thompson a scoprire la storia d’amore tra Echo e Bob quando nel 1971 lavorava a un libro sul menestrello, Positively Main Street. La ragazza delle terre del nord aveva un fascino doppiamente nordico, essendo non solo nata nel gelido Minnesota, ma anche di origine scandinava. Il giovane Robert Zimmerman la accompagnò al ballo di fine anno e scrisse per lei una dedica sull’annuario della loro high-school: «Lasciami dire che la tua bellezza non è seconda a nulla. Il mio amore alla ragazza più bella della scuola». Divenuto Dylan, le dedicò versi assai più intensi per il brano pubblicato nel 1963: «Mi chiedo se lei si ricordi di me. Tante volte ho pregato per lei. Nell’oscurità delle mie notti e nel bagliore dei miei giorni».

LEONARD COHEN «SUZANNE»

La Susanna di Cohen è una delle donne più celebri della canzone d’autore. Se la sono immaginata tutti come una seduttrice tanto bella quanto irraggiungibile. Era anche una persona in carne e ossa. Era la ballerina Suzanne Verdal di Montreal, città natale di Cohen, giovanissima moglie dello scultore Armand Vaillancourt. La storia l’ha raccontata lo stesso autore in un’intervista: «Erano una delle coppie più in vista a Montreal. Tutti gli uomini amavano Suzanne e tutte le donne erano innamorate di Armand». I due erano la coppia perfetta, desiderati e inaccessibili e desiderati poiché inaccessibili. «La incontrai una sera – ha ricordato Cohen – mi invitò a casa sua vicino al fiume… Toccai il suo corpo perfetto solo con la mia mente, non avrei avuto nessun’altra possibilità. E mi diede l’ispirazione per la canzone». Ma la vicenda ha uno sviluppo imprevedibile. Il brano è diventato un classico che ha ispirato generazioni di cantautori. La vera Suzanne è stata dimenticata. Il suo matrimonio da cartolina finì. Si trasferì in California per fare la coreografa di video musicali, ma un brutto incidente domestico compromise il suo «corpo perfetto» cantato da Cohen, impedendole di lavorare. Le spese sanitarie la ridussero sul lastrico e per sei anni ha vissuto in una roulotte. Ha ascoltato la sua storia e i versi a lei dedicati ovunque, ma non ha più sentito Cohen.

DEREK AND THE DOMINOS «LAYLA»

Galeotta fu la canzone e chi la scrisse. Nel 1970 Eric Clapton, lasciati i Cream con cui era diventato famoso, e dopo aver transitato brevemente nei Blind Faith, fondò il gruppo dei Derek and The Dominos. La band pubblicò un unico, memorabile album, ma ai tempi in pochi se ne accorsero. L’album Layla and Other Assorted Love Songs languì ai piani bassi delle classifiche. Clapton era malato d’amore e nei solchi del disco e soprattutto nel brano principale Layla cantava una passione non corrisposta per una donna che era sposata a uno dei suoi migliori amici. La musa era Pattie Boyd, la compagna dell’ex Beatle George Harrison, per cui il chitarrista dei Fab Four aveva scritto Something. Per un misto di «lussuria e invidia», confessò lo stesso Clapton, il suo sentimento fu travolgente fino a diventare un’ossessione: «Mi ero convinto che non appena lei avesse ascoltato per intero l’album e tutti i riferimenti alla nostra situazione, sarebbe stata sopraffatta dal mio urlo d’amore, avrebbe lasciato George e si sarebbe messa con me. Per sempre». Le cose non andarono proprio così. Il disco fu un fiasco, i Derek and The Dominos si sciolsero e Pattie rimase con George e «Slowhand» si diede «a tempo pieno» (sempre parole sue) all’eroina. Fine della storia? Non proprio. Nel dicembre 1972 il singolo Layla divenne a sorpresa un successo. Clapton si rimise in sesto abbastanza per incidere un nuovo disco solista e fare un tour. Pattie lasciò Harrison nel 1974 e trovò ancora Clapton pronto ad accoglierla a braccia aperte. I due si sposarono. Il loro matrimonio non fu particolarmente lungo né particolarmente felice (Clapton durante la festa di nozze abbordò un’altra donna), ma senza dubbio l’amore un po’ malato del suo autore ha dato al brano Layla un aroma leggendario.

JANIS JOPLIN «ME AND BOBBY MCGEE»

Janis Joplin incise Me and Bobby McGee pochi giorni prima di morire, il brano divenne un successo postumo nel 1971 e una delle canzoni più ricordate della sua breve carriera. Ma chi era questo Bobby McGee per cui la cantante avrebbe «scambiato tutti i suoi domani» per un solo ieri accanto a lui? Bobby in realtà era una donna. Barbara McKee, conosciuta come Bobbie (con la «ie» finale il nome diventa femminile) e non aveva nessun collegamento con Janis. Il brano infatti era stato scritto da un celebre discografico e autore di pezzi country, Fred Foster, che firmò molte canzoni per star quali Roy Orbison, Willie Nelson e Dolly Parton. Barbara-Bobbie era la segretaria di un amico e collega di Foster di cui l’autore si invaghì tanto da dedicarle questa storia d’amore on the road. Il brano venne inciso per la prima volta da un interprete country-pop, Roger Miller, e poi Foster la passò a un aspirante cantante in cui credeva molto, Kris Kristofferson che la incise nel 1970, cambiandone alcuni versi e trasformando il cognome in McGee. I due si presentarono nell’ufficio di Bobbie e le fecero ascoltare il brano. «Pensai che fosse la canzone più bella che avessi mai ascoltato», dirà la fortunata segretaria. Nella primavera del 1970 Kristofferson conobbe Janis. I due ebbero una relazione. Per molti lui era animato più da ambizione personale che da amore e la Joplin si sentiva sola e fragile. Kris la convinse però a cantare il brano di cui ascoltò l’incisione solo dopo che Janis non c’era più.

DOLLY PARTON «JOLENE»

«Jolene, Jolene, ti prego non prenderti il mio uomo». Una delle canzoni più amate nella storia della musica country è un’invocazione di una donna verso una sua rivale. Jolene, ha confessato Dolly Parton, che scrisse il brano nel 1973, è una persona reale. O meglio due persone reali. Il nome viene da una delle prime fan di Dolly, una ragazza che la seguiva e che fu una delle prime a salire sul palco per chiederle l’autografo. La cantante le chiese il nome e lei rispose «Jolene». «Che bel nome – replicò l’artista – un giorno scriverò una canzone con quel titolo». Ma se il nome è ispirato alla giovane seguace, la storia della rivalità amorosa è altrettanto reale. Ai tempi in cui scrisse il pezzo il marito di Parton, Carl Dean, era infatti oggetto delle attenzioni di una avvenente e insistente donna che lavorava nella banca di cui erano clienti. La paura di perdere il marito spinse la country-singer a creare un perfetto melodramma in stile western. Potere di una canzone: Carl Dean e Dolly Parton hanno festeggiato nel 2016 i 50 anni di matrimonio.

THE KNACK «MY SHARONA»

Sharona Alperin, agente immobiliare californiana, è la musa ispiratrice di uno dei maggiori one-hit-wonder del rock. I losangelini The Knack dominarono le classifiche nel 1979 con My Sharona. Il brano è diventato un inno rock e un successo così clamoroso e insuperabile da essere stato anche un macigno sulla carriera della band. Doug Fieger, il leader del gruppo, conobbe Alperin quando lei aveva 17 anni, lui ne aveva 25.

«Fu come essere colpito da una mazza da baseball in testa», disse il musicista. Lei era fidanzata, ma Doug si rivelò senza ritegno. «Ti amo – le disse – sei la mia anima gemella, sei la mia metà e un giorno saremo insieme». I due alla fine si fidanzarono per una relazione focosa, ma di breve durata celebrata da una canzone che conquistò le radio. Sharona fu anche la modella ritratta nella provocante copertina del singolo destinato a scalare le classifiche. Doug e Sharona finirono per sposare due persone diverse: l’amore tra i due era finito, ma l’amicizia rimase per sempre. Fieger è morto dopo una lotta contro il cancro nel 2010, tra le persone che gli erano accanto alla fine c’era anche la sua Sharona.

TOTO «ROSANNA»

Un caso famoso di appropriazione indebita. O forse no. L’attrice Rosanna Arquette ha più volte sostenuto di essere lei la Rosanna della grande hit dei Toto datata 1982. La canzone fu scritta dal tastierista, David Paich, proprio quando l’attrice, che ai tempi cercava di sfondare a Hollywood, era fidanzata con un altro membro del gruppo, Steve Porcaro. Rosanna si vedeva spesso nello studio di registrazione e riforniva, così narra la leggenda, di birre il gruppo impegnato a incidere l’album che li consacrò a un pubblico internazionale, Toto IV. Il nome di Rosanna, ha sostenuto Paich, era perfetto per una canzone che aveva scritto, non pensando a lei, ma a una sua vecchia fiamma dei tempi del liceo. «Non sapevo che quella ragazza potesse rendermi così triste» recita il brano destinato a vincere un Grammy Award. Che Paich fosse però anche segretamente invaghito della ragazza del suo amico? Paich in un’intervista dell’anno scorso ha confessato: «Appena entrò nello studio era così carina e affascinante che tutti ci innamorammo di lei. Io per primo». Una cosa è sicura, ha detto il chitarrista della band Steve Lukather: «Il meglio di quello che siamo e saremo sempre è racchiuso nella canzone Rosanna». La Arquette lasciò Steve Porcaro, fu fidanzata poi con Peter Gabriel che scrisse per lei In Your Eyes.

GLASVEGAS «GERALDINE»

L’anno scorso l’Evening Times di Glasgow riportava l’intervista a un’assistente sociale che lavorava nel pronto soccorso dell’ospedale cittadino e che curava un coraggioso progetto di assistenza alle vittime di violenza e di abusi. La donna è Geraldine Lennon, oggi 42enne, diventata protagonista di una delle più belle testimonianze del rock britannico del XXI secolo: il brano Geraldine, pubblicato come esordio dagli scozzesi Glasvegas nel 2008. Ai tempi, Geraldine lavorava con la sorella del leader della band, James Allan, era un’assistente sociale del comune assegnata alle persone con dipendenze. «Un lavoro ingrato, ma anche molto appagante in alcuni casi», ha ricordato la donna. Il cantante della band fu così colpito dai racconti della sorella da scegliere la figura di Geraldine come un simbolo di una professione tanto importante quanto ignorata e mai celebrata in una canzone rock. «Sarò in grado di cambiare il verso della tua corrente – recita il pezzo -. Farò tutto quello che possono per curarti dentro. Sarò l’angelo sulla tua spalla. Mi chiamo Geraldine. Sono la tua assistente sociale». «Solitamente – ha detto la signora Lennon – quando si parla di assistenti sociali è perché accade qualcosa di orribile. Quella canzone è la cosa più speciale che chiunque abbia mai fatto per me. Mi fa alzare la mattina. Ha catturato l’empatia che il nostro lavoro richiede con le persone per cui si lavora». Ma il brano è stato anche la fortuna dei Glasvegas che proprio in queste settimane stanno facendo un tour per celebrare i dieci anni da quel singolo di debutto.

U2 «IRIS»

Un giorno di settembre del 1974, a Dublino, Iris Rankin ha un malore al funerale di suo padre. Muore poco dopo per un’emorragia cerebrale. Aveva 48 anni. Per il figlio quattordicenne Paul il trauma è immenso. Inizia ad andare male a scuola, pensa al suicidio, gli viene assegnato un insegnante di sostegno: «Mi sentii crollare tutto addosso – ricorderà – la mia casa non era più la mia casa. Era diventata solo un edificio». Due anni dopo, sempre a settembre, il ragazzino che si faceva ora chiamare Bono Vox, suona per la prima volta con altri tre suoi compagni di scuola. Nascevano gli U2. Ma quel quattordicenne sconvolto non è mai andato via e Iris è comparsa, anche se mai nominata, come un fantasma in tante sue canzoni (Tomorrow, I Will Follow, Lemon, Mofo) fino ad avere un brano che porta il suo nome, Iris (Hold Me Close), comparso sull’album del 2014 Songs of Innocence. A cantare non è il giovane orfano, ma un padre e un uomo di più di 50 anni che con l’età ha capito che nell’arte il dolore è spesso una forza, un elemento essenziale dell’ispirazione. La scomparsa di Iris ha fatto di Bono quello che è oggi. «Tienimi vicino – recita la canzone -. Ho la tua vita dentro di me».

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