L’età dell’iperintelligenza
Il libro James Lovelock, «Novacene», Bollati Boringhieri
Il libro James Lovelock, «Novacene», Bollati Boringhieri
Senza forzare più di tanto gli agganci possibili con la drammatica attualità del Coronavirus, lo scenario prospettato dal nuovo libro di James Lovelock «Novacene. L’età dell’iperintelligenza» (Bollati Boringhieri, pp.123, euro 18) stimola un’interessante riflessione su un’era del futuro, che è già presente, inevitabile evoluzione di quella attuale che sembra avviata a un disfacimento/estinzione inarrestabile. Lovelock che a luglio scorso ha compiuto 100 anni ed esibisce una condizione fisica e mentale invidiabili, è uno scienziato (anche se lui si considera più un ingegnere) e ambientalista inglese sorprendente e anticonformista che ha sempre colpito per l’originalità delle sue posizioni a cominciare da quell’ipotesi «Gaia» elaborata nel 1972 per la quale la Terra va considerata nel suo complesso un organismo vivente perché anche le sue componenti geofisiche inanimate sono integrate con quelle animate in un unico sistema. Non stiamo parlando di un visionario ma di un illuminato, di un uomo che aveva già scritto nella sua infanzia il destino di ricercatore straordinario se come racconta a quattro anni nessuno sapeva rispondere alle sue domande su certi concetti dell’elettricità e a sette mentre era diretto con i genitori all’Albert Museum preferì andare per conto suo al Museo della Scienza.
Partendo dalla considerazione che l’uomo con la sua azione ha profondamente modificato l’ambiente e gli equilibri dell’ecosistema in modo da determinare una nuova epoca geologica chiamata Antropocene, Lovelock nel suo saggio sostiene che questa è al tramonto perché i disastri provocati dall’uomo sono diventati insostenibili e che soltanto con il Novacene (la «nuova era») ci si può salvare. L’età dell’iperintelligenza appunto che prospetta una soluzione grazie alle creature cibernetiche prodotte dall’intelligenza artificiale. Ma Lovelock prende le distanze dall’immagine più cinematografica e letteraria del robot introdotta per la prima volta come parola da Karel Capek nel 1921 e spiega con ironia: «Ero un po’ stufo della visione hollywoodiana dei cyborg e dell’intelligenza artificiale. Odio l’idea di essere comandato da un’aspirapolvere intelligente che rientra in una dimensione fantascientifica per la quale ci illudiamo di controllare le macchine. I cyborg del Novacene saranno in grado di autoprogrammarsi e potranno convivere con gli esseri umani che non spariranno, anzi magari si prenderanno cura di noi e ci terranno accanto a loro».
Certo l’ipotesi è talmente audace, stravagante e affascinante che non si può non avere qualche perplessità circa la fattibilità e la plausibilità, ma poi quando si materializza la personalità di un uomo di scienza che non è un imbonitore televisivo o un personaggio mediatico di moda, si fanno largo l’onestà intellettuale, la passione e il rigore scientifico che ci «costringono» a crederci. Del resto il percorso di un uomo che in un secolo si è occupato delle malattie contagiose durante la seconda guerra mondiale, ha portato avanti la ricerca dei batteri nei rifugi sotterranei, ha lavorato per la Nasa, ha progettato apparecchi per la ricerca della vita su Marte, è quanto di più eloquente. Ed è davvero contagioso l’entusiasmo di questo irriducibile centenario che non ha intenzione di interrompere la sua infinita ricerca per capire il nostro pianeta e il suo futuro.
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