Il volto deformato, gli occhi spiritati, fa la linguaccia, gli occhi chiusi, gli occhiali sott’acqua: nel rettangolo verticale il volto inquadrato si sdoppia, immerso nell’acqua della vasca da bagno, altre volte affiora in pose giocose e teatrali tra i riflessi della luce.
La serie è Bukubuku (1991) e il soggetto sempre Masahisa Fukase (Bifuka, Nakagawa District, Hokkaido 1932 -2012) che si autoritrae nel bagno del suo appartamento. Si tratta dell’ultimo lavoro esposto nella retrospettiva Masahisa Fukase 1961-1991, organizzata dal Top – Tokyo Photographic Art Museum, in collaborazione con il Masahisa Fukase Archives (la mostra è accompagnata dal catalogo edito da Akaaka in giapponese/inglese con testi di Tomo Kosuga e Yoshiko Suzuki), ma anche in assoluto dell’ultimo progetto realizzato da questo straordinario fotografo, dai tratti visionari.

IN UN CERTO SENSO si può leggere come il punto di non ritorno della ricerca dell’autore sul senso della vita, della perdita, del dolore, dell’amore: temi esistenziali affrontati confrontandosi con molti suoi amici fotografi (come Daido Moriyama, Nobuyoshi Araki, Masato Seto), tra depressione e uso di sostanze alcoliche.
Nel 1992, a un anno dalla pubblicazione dei libri Family e Memories of Father e subito dopo la mostra Private Scenes ’92 al Ginza Nikon Salon, una caduta dalle scale del bar dove si recava abitualmente gli provocò danni cerebrali irreversibili. Da quel momento, non potrà mai più fotografare. Una tragedia tra molte le altre che hanno costellato la sua vita e che Masahisa Fukase ha tradotto in una memorabile biografia visuale. Incentrata sulle foto della collezione del Top Museum e del Nihon University College of Art (dove nel 1956 si laureò in fotografia), l’esposizione ripercorre attraverso centoquattordici opere trent’anni di attività, a partire dal 1961, quando venne organizzata a Tokyo la sua prima personale, Kill the Pig.

Dalla serie Kazoku(Family), 1971, Collection of Tokyo Photographic Art Museum © Masahisa Fukase

LA CONOSCENZA del linguaggio fotografico era stato un abbecedario per Fukase fin da ragazzino, quando aiutava suo padre Sukezo che aveva preso le redini del Fukase Photo Studio aperto a Bifuka, nel 1908, dal suocero.
Il grande dilemma per lui fu proprio quello di percepire i limiti di una professione tradizionalmente legata alle conoscenze tecniche rispetto ai più vasti orizzonti della sperimentazione della fotografia come autonoma forma d’arte.
Nelle sue immagini, sempre concepite come progetto seriale, i sentimenti sono portati all’estremo, esaltati da un bianco e nero contrastato con quell’esuberanza dietro cui si cela timidezza. In Yugi, quando fotografa la moglie Yoko, oppure nei ritratti di famiglia (Kazoku), in Aruku me, nelle «scene private» (Shikei), nella premiata serie sui corvi (Karasu) o negli amatissimi gatti (Sasuke) c’è sempre Masahisa Fukase nel doppio ruolo di attore e regista, alle prese con l’ossessiva ricerca di sé. «Mi sono visto riflesso negli occhi dei gatti – scrisse – Volevo fotografare l’amore che ho visto lì».