L’estrema destra alle porte e l’antifascismo reale
Attorno all'identità di un post-fascismo ieri estraneo al patto costituente ed oggi proiettato al governo, si avvita l'ultima regressione della democrazia italiana
Attorno all'identità di un post-fascismo ieri estraneo al patto costituente ed oggi proiettato al governo, si avvita l'ultima regressione della democrazia italiana
È da una frase di Giorgio Almirante, pronunciata al congresso del Msi nel 1956, che si può partire per disegnare la traiettoria storico-politica del «partito della fiamma» e per descrivere la salute del Paese a poche ore dal voto: «L’equivoco, cari camerati, è uno e si chiama essere fascisti in democrazia».
Attorno all’identità di una destra ieri estranea al patto costituente ed oggi proiettata al governo, si avvita l’ultima rappresentazione regressiva della democrazia italiana.
Nel cuore di una crisi globale resa «tempesta perfetta» dalla guerra (grande assente della campagna elettorale ma risultante ultima ed esito esiziale delle contemporanee e complementari crisi economico-sociale, ambientale e sanitaria), il post-fascismo italiano si propone come «alternativa di sistema». Non certo del sistema di produzione e redistribuzione della ricchezza, tutt’altro. Tanto meno come alternativa al sistema di alleanze internazionali. Su questi punti dirimenti gli eredi di Salò hanno già dato da oltre mezzo secolo ampie garanzie.
In una conferenza stampa del 28 novembre 1951 l’allora segretario missino Augusto de Marsanich annunciò ufficialmente l’accettazione della Nato «come sistema militare difensivo anticomunista».
Una posizione ribadita l’11 agosto 1970 quando Almirante in Parlamento affermò: «abbiate la bontà di riconoscere che il patto atlantico è insostituibile, come noi crediamo».
Da quei giorni, fino alla «svolta» di Fiuggi del 1995, la postura dell’estrema destra in politica estera non è mai cambiata ed è stata ratificata dall’incarico dello stesso Gianfranco Fini alla Farnesina.
È un’altra la colonna a cui i postfascisti aspirano assestare una definitiva spallata: la democrazia costituzionale emersa in Italia dopo il 25 aprile 1945.
Questo rappresenta l’obiettivo sistemico dell’estrema destra che essendo incapace, data la sua natura, di recidere i legami con il passato evoca un antico adagio del suo capo storico Almirante che il 23 settembre 1969 tracciò un solco poi seguito dai suoi epigoni: «Lo stesso fascismo è stato innanzitutto un fatto di costume e per questo è stato l’unico momento epico nella storia del popolo italiano. Io vorrei che riuscissimo ad installare in noi stessi e in molti italiani, la nostalgia dell’avvenire. Un avvenire pregno di passato».
Un concetto della democrazia su cui tornò Pino Rauti che nel 1971 dichiarò: «Noi siamo contrari alla democrazia in linea di principio, perché non crediamo nell’uguaglianza degli uomini, non crediamo al suffragio universale».
Per questo sulla bocca degli eredi del fondatore di Ordine Nuovo (gruppo responsabile della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969) stonano le grida contro Bernard-Henry Lévy (da tempo acerrimo avversario della sinistra) a proposito del rispetto del voto popolare. Almeno quanto la candidatura, proprio nel collegio di Milano, della figlia di Rauti, Isabella.
Nei passaggi critici della storia d’Italia l’estrema destra ha rappresentato sempre un «dispositivo di riserva» attraverso cui si è manifestato l’eterno «sovversivismo delle classi dirigenti» indicato da Antonio Gramsci. Classi dirigenti estranee alla Costituzione almeno quanto la destra post-fascista con cui condividono l’avversione alla democrazia conflittuale (evidenziata dalla lotta contro i diritti dei lavoratori che hanno fatto dell’Italia il Paese ultimo nella classifica dei salari e primo in quello della precarietà); l’ostilità al rafforzamento dello stato sociale (dalla guerra al reddito di cittadinanza fino al de-finanziamento di sanità e scuola); la lotta all’equità fiscale (la flat tax che cancella la progressività delle imposte stabilita dalla Costituzione); la difesa del corporativismo, come linea di indirizzo economico, a spese delle risorse pubbliche dello Stato.
È questo «liberismo reale» che ha prodotto e alimentato un sistema regressivo, il sovranismo, che si pone oggi come negazione, antitesi e sostituzione del principio costituente della sovranità popolare nata dalla Resistenza. Una pratica liberale che ha umiliato il lavoro, l’ambiente, la salute e la ricerca scientifica, concentrandosi sull’espansione dei consumi individuali anziché su quelli sociali e determinando l’allargamento esponenziale delle disuguaglianze in tutto il mondo.
Per contrastare la destra reale (un soggetto molto più esteso e profondo – ebbe a dire Aldo Moro negli anni ’60 – della sparuta ridotta missina) non servono gli appelli elettorali, peraltro sempre meno credibili, della sinistra di mercato contro il pericolo autoritario che minaccerebbe la democrazia liberale. È invece indispensabile un ritorno alla radice storica dell’antifascismo come «teoria dello Stato» ovvero come scudo protettivo, unitario e di emancipazione delle classi subalterne, delle persone più deboli e discriminate. Un vasto programma, la Costituzione, con profonde radici e ampio consenso.
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