L’estinzione di massa è alle porte
Evoluzione Uno studio sulla rivista «Proceedings of the National Academies of Sciences» sui rischi da scomparsa degli umani. La Terra ha già conosciuto «rivoluzioni ecologiche» segnate dalla morte di piante, batteri e animali. Se nel passato le cause erano dovute a eventi esterni questa volta la responsabilità sarà degli umani
Evoluzione Uno studio sulla rivista «Proceedings of the National Academies of Sciences» sui rischi da scomparsa degli umani. La Terra ha già conosciuto «rivoluzioni ecologiche» segnate dalla morte di piante, batteri e animali. Se nel passato le cause erano dovute a eventi esterni questa volta la responsabilità sarà degli umani
Ogni anno, si estinguono mediamente due specie di vertebrati. Nell’ultimo secolo, quindi, circa duecento specie di vertebrati sono sparite dalla faccia della Terra. Per ottenere lo stesso risultato, due milioni di anni fa, «servivano in media non cento, ma diecimila anni», scrivono Gerardo Ceballos (Università Autonoma di Città del Messico), Paul Ehrlich e Rodolfo Dirzo (Università di Stanford, California) in uno studio appena pubblicato dalla rivista Proceedings of the National Academies of Sciences. Con Nature e Science è tra le riviste scientifiche ritenute più serie e prestigiose, dunque i dati vanno presi sul serio. Secondo i tre, e molti altri loro colleghi, siamo in piena «estinzione di massa»: una vera e propria rivoluzione ecologica in cui nel giro di qualche millennio rischia di sparire una buona parte degli animali, delle piante e dei micro-organismi viventi sulla Terra. Ed è colpa nostra.
I TRE STUDIOSI ritengono che i dati sulle estinzioni potrebbero persino indurre a sottovalutare il fenomeno in corso, perché due casi l’anno in fondo sembrano trascurabili. Se ci si concentra su altri aspetti, il quadro è ancora più allarmante.
Ceballos e colleghi si sono rivolti all’«Unione Internazionale per la Conservazione della Natura», un consorzio a cui partecipano governi e Ong. L’Unione fornisce le informazioni sulla distribuzione geografica delle specie. Ad esempio, la mappa delle aree dell’Africa Sub-Sahariana in cui è possibile avvistare i circa 35000 leoni rimasti. I ricercatori hanno confrontato questi dati con altre fonti storiche, secondo le quali nel XIX secolo i leoni erano presenti in tutta l’Africa, ma anche nei Balcani, nella penisola arabica e persino in India. Ripetendo l’analisi su altre 176 specie di mammiferi, si osserva lo stesso fenomeno: specie che occupavano uno o più continenti, oggi si sono ristrette in piccole aree. Quasi la metà delle specie censite ha perso oltre l’80% del proprio habitat di cento anni fa. Africa e Asia, e in particolare le loro regioni tropicali, sono le regioni in cui le specie si sono ridotte più notevolmente.
GLI SCIENZIATI associano l’estensione geografica di una specie con il numero di popolazioni geneticamente omogenee in cui si divide la specie. Dunque, anche nelle specie che non sono a rischio immediato di estinzione si è già assistito ad una drammatica riduzione di popolazioni, cioè della biodiversità e della capacità di adattamento. Perciò, l’estinzioni delle popolazioni è un diretto precursore dell’estinzione. Tutti i segnali indicano che la decimazione non riguarda solo i mammiferi. «La descriviamo sotto il nome di “annichilazione biologica” per sottolineare la portata dell’attuale estinzione in corso», sostengono gli autori. «È il preludio alla scomparsa di molte altre specie e il declino dei sistemi naturali che hanno reso possibile la civiltà», chiarisce Ceballos.
L’allarme dei tre biologi non è isolato. Che il ritmo delle estinzioni abbia accelerato è noto da almeno trent’anni. Già negli anni ’80 il biologo Edmund O. Wilson aveva stimato che il tasso è aumentato di circa diecimila volte da quando l’uomo ha iniziato a scorrazzare sul globo, come scrisse sulla rivista «Scientific American». Negli ultimi anni, i dati hanno perfezionato le stime senza cambiare la sostanza.
Il riscaldamento globale causato dall’uomo è solo uno dei fenomeni che sta mutando radicalmente l’habitat, e riguarda un periodo storico piuttosto ridotto – gli ultimi due secoli in cui abbiamo imparato a bruciare idrocarburi su larga scala. Ma i primi danni sono iniziati con l’agricoltura, circa 10-12 mila anni fa. La caccia organizzata, l’inquinamento e l’acidificazione degli oceani hanno fatto il resto. Il tempo per invertire la rotta, ammesso che siamo ancora in tempo, non si misura con l’arco dei secoli, ma dei decenni. Altrimenti, l’estinzione di massa è inevitabile.
NON SI TRATTEREBBE della prima estinzione di massa: secondo i paleontologi, sulla base dei ritrovamenti fossili, negli ultimi 500 milioni di anni ci siano stati altre cinque estinzioni su larga scala (le «big five»), oltre a altri episodi di dimensioni più piccole.
L’evoluzione, infatti, non è stata affatto un processo graduale come inizialmente riteneva lo stesso Darwin. Piuttosto, si sono alternati periodi di relativa quiete, in cui specie e ambiente hanno trovato un equilibrio stabile e le estinzioni erano un evento raro, con periodi molto turbolenti.
Una delle stime più recenti del ritmo «di quiete» delle estinzioni, che ci permette di valutare quanto sia stato vasto il nostro impatto, l’ha fornita il paleontologo Jurrian de Vos. Prima di noi, ogni specie poteva ragionevolmente permanere sulla Terra qualche milione di anni. I biologi lo chiamano «tasso di estinzione di fondo». Oggi, secondo i calcoli di De Vos le specie si estinguono a una velocità mille volte maggiore, segno che evidentemente l’equilibrio si è rotto.
Si tratta di un fenomeno ricorrente. Un sistema complesso come la Terra può generare spontaneamente bruschi cambiamenti (ad esempio, nella temperatura o nell’abbondanza di alcuni elementi chimici) che costringono l’intero ecosistema a rinnovarsi quasi del tutto.
252 milioni di anni fa, a causa della più grave estinzione di massa, sparirono il 96% delle specie marine e il 70% dei vertebrati terrestri, e sulle cause finora vi sono solo ipotesi più o meno plausibili. Più chiaro è ciò che è successo 66 milioni di anni fa, quando un meteorite di 20 km di diametro colpì lo Yucatan, provocando l’estinzione dei dinosauri e del 75% di tutte le altre specie animali.
PERALTRO, anche altre estinzioni di massa, più piccole delle «big five», sono state spiegate con la diffusione di nuove specie animali (come la nostra) in grado di mettere in crisi l’habitat di tutte quelle pre-esistenti. Successe circa 540 milioni di anni fa, quando i primi animali ruppero l’equilibrio in cui prosperava la cosiddetta «fauna di Ediacara», costituita da pacifici e immobili organismi pluricellulari che avevano dominavano sull’intero pianeta nutrendosi semplicemente di ossigeno. L’attuale «sesta estinzione» sarebbe però la prima provocata da un’unica specie. Tra le probabili vittime del’estinzione potremmo esserci anche noi umani. Per il resto dell’ecosistema, sarà un’ottima notizia.
Gli scienziati si stanno già interrogando su quali forme di vita sopravviveranno alle prossime estinzioni. È poco più di un gioco, perché le dinamiche degli ecosistemi sono sostanzialmente imprevedibili. Ma qualche punto fermo c’è: i tardigradi non se ne andranno facilmente. Si tratta di piccoli organismi molto comuni (si trovano anche nelle comuni pozzanghere) ma dalle incredibili capacità: resistono fino a 30 anni alla mancanza di acqua e di cibo, sopravvivono anche a 150 gradi di temperatura ma anche al gelo e al vuoto cosmico.
SULL’ULTIMO NUMERO della rivista Scientific Reports (gruppo Nature) i fisici David Sloan, Rafael Batista e Abraham Loeb dell’università di Oxford e di Harvard hanno esaminato la possibilità che sia una catastrofe di origine cosmica a fare estinguere i tardigradi nei prossimi dieci miliardi di anni, dopo i quali il sole si spegnerà. Secondo le informazioni a disposizione degli astronomi, in questo periodo non sono previsti né asteroidi abbastanza grandi, né esplosioni di supernove o di raggi gamma abbastanza vicine al sistema solare. Dunque, a godersi l’ultimo tramonto saranno loro
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