Visioni

L’estate di Cléo, lo sguardo dell’infanzia dentro al mondo

Una scena da «L’estate di Cléo»Una scena da L'estate di Cléo

Al cinema Marie Amachoukeli firma una storia di formazione ispirata al suo vissuto. Una bambina e la sua tata tra Francia e Capo Verde, la cura per necessità

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 21 marzo 2024

Presentato lo scorso anno al Festival di Cannes, in apertura della Semaine de la Critique, L’estate di Cléo (Ama Gloria), il film di Marie Amachoukeli, già autrice del molto premiato Party Girl (2014, cofirmato insieme a Claire Burger et Samuel Theis, e premiato con la Caméra d’oro) è un racconto di formazione modulato con spigolosa tenerezza nel flusso di emozioni e accadimenti colti sul momento dalla sua piccola protagonista, la Cléo del titolo, che nonostante i suoi limiti e la sua poca esperienza di relazioni vuole affermare il proprio bisogno di essere amata.

La regista, che è anche autrice della sceneggiatura, si è ispirata alla sua esperienza di ragazzina cresciuta da una donna portoghese con la quale ha passato nei primi anni di vita più tempo che coi genitori – è  Laurinda Correia a cui è dedicato il film. Questo coinvolgimento personale poteva rendere la sua scommessa ancora più complicata, non è facile infatti confrontarsi con una storia piccola e insieme così potente da scompigliare intere esistenze come è questa, con una bimba di pochi anni e già molti dolori – non ha più la mamma, ha problemi di vista, con una forte miopia (anche questo è un aspetto autobiografico) – che all’improvviso deve fare fronte a un nuovo lutto: la sua amatissima tata Gloria tornerà a Capo Verde per occuparsi dei suoi figli e della sua casa. La piccola che in lei aveva trovato una mamma in una relazione di complicità, segreti, confidenze, abitudini, protezione – tutto ciò che non riesce a avere col padre musicista- è disperata e si fa promettere di poter andare da lei appena ci saranno le vacanze dell’estate.

«L’INFANZIA è un momento vulcanico in cui non esistono mezze misure. E visto che gli adulti non dicono mai tutto, i bambini come Cléo devono inventare le loro narrazioni per capire cosa sta succedendo» ha detto Marie Amachoukeli parlando del film. Perché dietro alla commozione, che c’è ma senza mai retorica, grazie anche all’alchimia fra le due protagoniste, entrambe non attrici di professione, la piccola Louise Mauroy-Panzani e Ilça Moreno Zego nel ruolo della nanny, questa esperienza di scoperta del mondo ne interroga lo stato mettendo in campo molte questioni politiche del nostro tempo. Che riguardano la condizione delle persone che si prendono cura dei bimbi in occidente, un rapporto asimmetrico perché mai paritario in cui si riflette la differenza tra benessere e bisogno di chi lascia i suoi affetti per lavorare rinunciando così a prendersi cura di propri figli.

Gloria vuole bene a Cléo ma è anche pagata dal padre per stare insieme a lei, e la bambina di questa persona non ha mai chiesto nulla. Davanti al mare – con l’acqua delle onde e quella delle molte lacrime che versa di nascosto – scopre la sua casetta senza comodità, i figli già cresciuti, una incinta, l’altro che odia la madre, la povertà e il lavoro senza sosta che Gloria deve affrontare per sopravvivere. Lei non è più al centro perché ci sono altre esigenze, perché Gloria ha la sua vita, e le sue mani che la carezzavano nel bagnetto devono occuparsi di infinite cose, compreso il nipotino neonato che arriva in quei giorni. Ma volersi bene è anche condividerlo con altri, non pensare di essere soli al centro – una consapevolezza importante per la bambina seppure nella confusione dell’età infantile.

E SE Cléo vede sfocato come nella scena iniziale del film, questi contorni potranno farsi più chiari pian piano permettendole di cogliere una realtà inaspettata. È una questione di sguardo, e quello della macchina da presa di Amachoukeli è sempre ravvicinato, riprende da vicinissimo i volti delle due protagoniste, dal basso quello di Clèo, che nel corso della stroia impara appunto che crescere significa osservare le cose in prospettiva. La grazie del film è muoversi nella propria materia con leggerezza, sfuggendo a semplificazioni o a letture sovrimpresse; in fondo si parla d’amore e dell’avventura che può essere la vita.

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