I miei nonni restavano in città. Non era consuetudine, non c’erano i soldi, restavano per vederci partire, restavano ad aspettare il ritorno. Così per me bambina l’estate non era il viaggio, non era la vacanza, non era la smacchinata nella 128 gialla niente cinture né specchietto retrovisore, ma un piccolo mangianastri tenuto sulle gambe per chilometri infiniti. No, no: per me l’estate era il balcone dei miei nonni.

Cominciava lì: come una proiezione, qualcosa di indefinito, sentivi che arrivava ma era imprendibile, è rimasta imprendibile. Io voglio l’estate ma non la raggiungo mai.

In estate il balcone dei miei nonni cambiava, l’estate si preannunciava in certi minuscoli spostamenti concertati dal nonno: due sedioline pieghevoli tirate fuori dal ripostiglio venivano ritinteggiate, così un’estate erano a strisce bianche e verdi, quella successiva a strisce bianche e arancio, e le foto cambiavano di anno in anno. E poi il nonno stendeva un telo che ombreggiasse, dalla tapparella alla ringhiera, e lì, sotto quella tenda, in quella canadese protetta, io e i miei cugini ci mettevamo seduti a terra con le gambe penzoloni sulla città, e partivamo.

Mia nonna ha sempre preso il caffè alle cinque. Se glielo offrivano prima rifiutava, un giorno mi spiegò perché: «Sennò mi levo pure quella speranzella». Questo avevano le donne e gli uomini del secolo triste, scampati alla guerra, lei ai bombardamenti, lui alla prigionia, avevano la speranza della macchinetta di caffè che li traghettasse nel pomeriggio, e un balcone aggettante sulla città dalle sue colline.

Da quelle colline stuprate dai costruttori si vedeva solo un mare di altri palazzi, ma per ciascuna delle case che da lì guardavamo, in ciascun balcone, nasceva una nuova estate. L’estate era nei ragazzini che non andavano più a scuola, nei genitori che li mollavano dai nonni e in quei nonni che scandivano diversamente la loro giornata, anche senza che ce ne fosse motivo.

La sera ci veniva offerta: non finiva con la cena, finiva con lo spettacolo della metropoli che si accendeva sotto i nostri piedi, una gamba / un asse di ringhiera, una gamba / un asse di ringhiera, così per tutti i cugini, lì in fila seduti con il culo sulle mattonelle calde e gli occhi che si infilavano nelle luci degli altri. Il nonno innaffiava, il gelsomino raccontava meglio di ogni poesia che ci avessero dato da studiare a scuola, e il resto lo faceva quel terrazzo lì di fronte, grande, con una tavola spesso imbandita, con convitati che manco riuscivamo a scorgere, se non che le donne si sventolavano e gli uomini fumavano.

Quel terrazzo laggiù, imprendibile, anche se dopo, nella vita, abbiamo avuto terrazzi.

Ma lì succedeva qualcosa che in inverno ci era preclusa, lì, non noi, gli altri, non qui, ma lì: era estate. Così per noi nipoti andare in vacanza era la vacanza, ma la stagione (a Napoli l’estate è «la stagione», non ce n’è un’altra) restava acquattata in città con i nonni, la lasciavamo all’alba della partenza con l’odore del caffè e la ritrovavamo al ritorno nelle mani di mio nonno messo di vedetta a quel balcone, che iniziava a sbracciarsi vedendo il muso della 128 gialla, chissà da quanto stava lì, senza cellulari per annunciare il ritorno, chissà la nonna da quanto l’aveva messo lì: ad avvisarla perché lei doveva menare la pasta.

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Dopo, ho avuto altri balconi. Durante l’università la sessione estiva era quella a cui destinavamo più energie: perché era la più lunga, perché dava il tempo di studiare finiti i corsi e perché se la passavi bene, finita quella: eri libero. Allora io mi alzavo da quel tavolo invaso di appunti e dispense e libri e post-it, la porta finestra spalancata per incanalare il vento e un posacenere, un telecomando, il barattolo del sale, un peso su ognuno di quei fogli affinché non volassero, e uscivo sul balcone. All’aria umida dell’estate ho raccontato la monetazione dell’età argentea, la lineare B e il disco di Festo, i Canti di Leopardi. Oltre la balaustra c’era un professore immobile, una commissione, l’assistente. Io ripetevo, parlavo, provavo. Affacciavamo in una corte interna, e d’un tratto il palazzo difronte si colorava di una luce diversa da tutte le altre, smetteva di essere brutto come l’edilizia antisismica fiorita dopo il terremoto dell’Irpinia, e diventava, quel muro lì colorato dal sole occidentale, diventava l’estate. Ripetevo, parlavo, provavo, ma sapevo che ce l’avrei fatta. Alla notte, dall’altra parte del palazzo, su un altro balcone, seduta a terra tra i vasi, fumavo sigarette nascoste.

Forse dopo sarebbe arrivata la vacanza premio, con gli amici, ma intanto l’estate avanzava come un movimento interno, non importava che si andasse o si restasse, ella arrivava; non importa se ne scorgiamo i segnali nel mare o nell’asfalto, al lavoro o da un albergo: ella ci prescinde, arriva sempre come una promessa e, come le promesse più ambite, si rinnova senza compiersi.

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Ricercate e ripescate una ad una nel nostro ultracinquantennale archivio fotografico, le otto immagini d’autore che trovate in queste pagine sono altrettanti pezzi di giornalismo sulla società italiana.