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L’essenza dell’America nei riots di «Detroit»

L’essenza dell’America nei riots di «Detroit»

Festival A Roma il nuovo film di Kathryn Bigelow sulla rivolta africanamerican nella «Motor Town» degli anni ’60

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 28 ottobre 2017

Con la semplicità che è propria del suo stile – frontale, asciutto, diretto – Kathryn Bigelow annuncia già dal titolo che il suo nuovo film torna sul territorio americano. Dopo aver accompagnato in Iraq lo sminatore di Hurt Locker e il commando dei liquidatori di Bin Laden nella notte afgana di Zero Dark Thirty, eccoci a Detroit, a casa. Eppure, il soggetto del film è ancora una volta l’apertura improvvisa di una voragine nera sulla cartina. Siamo nel 1967, per alcuni giorni, Detroit smette di essere parte degli Stati Uniti e diventa un nuovo fronte di guerra. La guardia nazionale è inviata a sedare una rivolta della comunità nera e non esita a marciare sui ribelli armi in pugno. Il diritto cede il passo alla forza, ogni orrore diventa possibile e, immancabilmente, quello che può accadere accade.

Il film, che è stato concepito e girato nel 2016, evoca le rivolte di Ferguson. Negli Stati Uniti, dove è uscito nelle sale in agosto, Detroit non poteva non suscitare un intenso dibattito proprio in virtù della sua attualità. Ma se questa dimensione è innegabile, il film non andrebbe ridotto ad essa. La riflessione di Bigelow è ben più radicale. Sia nel riot, che nella repressione di Stato, che nella violenza da gangster della polizia e infine nel processo che non condanna i carnefici, il film non vede solo la manifestazione di una situazione eccezionale ma l’apparire istantaneo dell’essenza stessa dell’America.

Ma andiamo per gradi. Com’è il film ? A cosa somiglia ? Non se ne tradisce lo spirito dicendo che è diviso in tre parti. Nella prima, Bigelow mette in scena l’accendersi della rivolta, ovvero come un episodio isolato, nel contesto di una società segregata, esplode in una rivolta. Questa parte, che per molti versi è la migliore, ha una forma corale. Bigelow filma, con mestiere e con talento, qualcosa che potremmo chiamare una pura azione. Ossia un quadro dove gli elementi singoli sono sia fisicamente che psicologicamente iscritti per intero nel fluire di un tutto.

Sebbene il riot abbia delle caratteristiche specifiche, queste immagini non possono non evocare, a chi ne è stato testimone, quelle del G8 di Genova. Il tratto comune è quello della militarizzazione di uno spazio che poco prima apparteneva al diritto. Ciò che i migliori film emersi dal G8 hanno colto non è infatti la violenza della polizia ma la sopresa di molti manifestanti che scoprirono a caro prezzo l’emergere di una situazione in cui la legge lascia il passo alla bruta forza. La seconda parte del film racconta anch’essa un episodio ispirato a fatti realmente accaduti. Confusi da uno sparo a salve, che viene scambiato per il tiro di un cecchino, un gruppo di poliziotti apre il fuoco e poi fa irruzione in un hotel.                                                             

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Qui, allo scopo di trovare il colpevole e l’arma, gli aguzzini scatenano una violenza che si alimenta da sé fino all’inverosimile. È questa seconda parte che ha più colpito. Bigelow gioca una partita sul filo del rasoio con un genere che pur non essendole nuovo (la tortura, sia fisica che psicologica, era già oggetto di Zero Dark Thirty), è portato alle estreme conseguenze. Da questa parte dell’Atlantico le scene di questa (lunga e dura) parte non possono non evocare a loro volta gli orrori di Bolzaneto. Ma è importante notare che, al di là dell’analogia polica, l’idea è diversa. Ogni film su Bolzaneto infatti doveva svelare una realtà (secondo il vecchio modello cinema di controinformazione).

Mentre il progetto di K.B. sembra ad un primo sguardo assurdo, ché il suo intento non è di svelare quanto piuttosto quello di costruire un’immagine.
In quest’immagine si vede l’America. Se c’è un oggetto che K.B. ha sempre cercato inquadrare è infatti l’idea dell’America. L’operazione è più ardua di quello che sembra perché l’America in quanto idea non è mai dove ci si aspetta, ovvero dove già si è stabilita, ma dove non è ancora. Non è un luogo (fisico o politico) ma una frontiera. L’America è sempre là dove si lotta ancora per imporla (o per resisterle). Lo sminatore di The Hurt Locker la trovava nel bel mezzo di Baghdad, i surfisti di Point Break la cercavano tra le onde.

Paradossalmente l’America è altrettanto Osama Bin Landen, nella sua casa nel deserto, che l’Fbi che lo va a stanare. Paradosso solo apparente che K.B. non fa che tessere il filo del cinema western. L’ultima parte del film, il processo, ha il sapore paradossale dell’Uomo che uccise Liberty Valance. Il diritto per riaffermarsi deve distanziarsi dalla violenza. Ma al tempo stesso non può condannarla perché è su di essa che si fonda. Il fascismo di Stato non è quindi una deriva originale, un peccato da dimenticare o da nascondere, ma l’essenza stessa dell’America. Essenza alla quale il cinema di Bigelow guarda con sgomento ; ma alla quale guarda, con la curiosità con cui Perseo osserva, riflesso sul suo scudo, il volto della Medusa.

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