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L’esperienza affettiva della perdita afferrabile solo se tradotta in stile letterario

L’esperienza affettiva della perdita  afferrabile solo se tradotta in stile letterarioFrancesco Hayez., Malinconia

«Nostalgia. Storia di un sentimento» a cura di Antonio Prete, da Cortina

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 aprile 2018

«Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì ch’han detto ai dolci amici addio…»: uno degli incipit più incantevoli e intensi della Commedia, l’VIII del Purgatorio, dà figura e forma di parola alla finitudine del tempo e dello spazio, alla lontananza e alla nostalgia che ne consegue.

L’addio è il protagonista di questo avvio mirabile, che è nella memoria di tutti. Il saluto «per sempre» a chi si ama e al «tempo che fu»; un «mai più» che si traduce in memoria di tenerezza e in un desiderio di riscatto che il futuro non riuscirà a soddisfare. Nel «core» si insediano la tenerezza, la malinconia, la nostalgia che si legano all’esperienza della perdita, dell’essere-lontano, dello scoprire sé stessi come esseri della lontananza, esiliati dalla realtà pur trovandosi nel cuore di essa.

La nostalgia, presenza del passato come lontananza depositata nel ricordo, è un sentimento complesso, in cui si stratificano emozioni insieme delicate e laceranti, e di cui si vorrebbe tratteggiare una storia, così come Leo Spitzer fece per la Stimmung, la percezione dell’armonia del mondo sentita in perfetta consonanza interiore. Ma per quanto il nóstos per antonomasia, il ritorno di Ulisse in patria, inauguri la letteratura occidentale, mancava ancora una storia antropologica della nostalgia: la parola entrò ufficialmente nel lessico europeo nel 1688, con una dissertazione del medico svizzero Johannes Hofer, a partire dalla quale Jean Starobinski nel 1966 scrisse uno splendido saggio, Il concetto di nostalgia, imperniato sul «rapporto dei sentimenti con il linguaggio». Entrambi vengono ora ripubblicati da Antonio Prete in un volume da lui stesso curato, che dell’emozione nostalgica restituisce una stratigrafia elegante e fascinosa. Il libro, titolato Nostalgia Storia di un sentimento, uscì già nel 1992, viene riproposto arricchito di studi (Starobinski, Vladimir Jankélévitch, due scritti dello stesso Prete) e di testi medico-filosofici, soprattutto settecenteschi (Raffaello Cortina, pp. 199, € 14,00).

Starobinski, che non a caso fu editore delle Études de style di Spitzer, coglie subito nel segno: «I sentimenti di cui vogliamo ripercorrere la storia ci sono accessibili solo a partire dal momento in cui si sono manifestati, verbalmente o attraverso qualsiasi altro mezzo espressivo. Per il critico, per lo storico, un sentimento esiste solo una volta che abbia passato la soglia che lo fa accedere al suo statuto linguistico. Non possiamo cogliere nulla di un sentimento al di qua del punto in cui si nomina, in cui si designa e si esprime. Non è quindi l’esperienza affettiva in sé che ci si offre: solo quella parte dell’esperienza affettiva che si è calata in uno stile può sollecitare lo storico».
I grandi poeti, e sulle loro orme pochi grandi studiosi, trovano le parole per nominare le emozioni che tutti proviamo e a cui non riusciamo a dare forma compiuta. La nostalgia dantesca, appunto, archetipo letterario dello sguardo malinconico verso un tempo che non c’è più, intenerimento per quella lontananza, legata a un addio già da sempre pronunciato, e che si deve imparare a pronunciare serenamente in ogni istante della vita: «Esperienza della sparizione prima che essa avvenga. Esperienza della lontananza prima che essa si dispieghi . Esperienza di un tempo sospeso, nel quale il prima e il dopo pare si congiungano». Così Antonio Prete, che è fra i nostri più sensibili scrutatori dell’interiorità e delle sue espressioni poetiche moderne, nelle pagine dedicate a Nostalgia e poesia lega Dante e Leopardi, scavando nel loro altissimo canto la percezione di quel sentimento radicalmente umano, che Giorgio Caproni pensò come «la spina della nostalgia» e Attilio Bertolucci illuminò nel verso magnifico: «assenza, più acuta presenza».

L’avanzare della mente nello spazio-tempo perduto affila la memoria, la rende essenziale, offrendo l’immagine di una lontananza in cui il reale vanisce, fino a trasformarsi nelle «cose che non son cose» di cui parla Leopardi nello Zibaldone il 22 aprile 1826 per definire «il non essere», «quel che non è». Sono le ombre che la mente conserva della luce da cui fu illuminata la vita trascorsa; sono l’altrove, l’ulteriorità a cui la poesia dà parola in quanto lontananza. Nel Trattato della lontananza, lo stesso Prete scriveva: «compito del linguaggio è non ridurre lo spessore della lontananza»; l’arte, la poesia, «tengono aperto lo spazio della lontananza, perché rappresentano la lontananza come lontananza».

Separazione spaziale e irrecuperabilità del tempo perduto sono al centro dell’«inquietudine del nostalgico», che è poi ancora e sempre il cor meum inquietum est con cui Agostino apriva le Confessioni, e che Giuseppe Ungaretti, autodefinitosi «agostiniano senza grazia», riconobbe nel cuore di ogni essere umano esiliato nella «regione di dissomiglianza» che è la vita, la Vita d’un uomo, e in cerca della sua Terra promessa.

Vladimir Jankélévitch, nel suo lungo ricercare su L’irréversibile et la nostalgie, qui tradotto, spiega che «il nostalgico è contemporaneamente qui e là, né qui né là, presente e assente, due volte presente e due volte assente. L’esule ha così una vita doppia»; in lui la ricerca nostalgica del passato diviene un «pellegrinaggio alle origini». È l’umana, forse troppo umana «reazione all’irreversibile». Il senso del pensare e del far poesia, risiede in questa terapeutica battaglia contro il tempo, di cui Antonio Prete delinea l’epica fatica: «La poesia, lingua precipua del sentire, conosce e mette in scena anche il dolore per la lontananza da un tempo che più non c’è. Conosce la miseria dell’irreversibile, la distanza dal già vissuto, la malinconia del finito. Conosce e mette in scena il tragico. Solo che il suo rappresentare in assenza è davvero un render presente, un dare nuova presenza (…) La poesia dischiude il colloquio con quel che più non c’è. Pensa contro l’oblio».

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