Cultura

Un espatrio per sconfiggere il tempo

Un espatrio per sconfiggere il tempo«Nostalgia», di Yoan Capote

Scaffale «Buongiorno mezzanotte, torno a casa» di Lisa Ginzburg, pubblicato dall'editore Italo Svevo

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 25 aprile 2018

Fra le molte cose che ci insegna Buongiorno mezzanotte, torno a casa di Lisa Ginzburg (pubblicato da Italo Svevo, pp.71, euro 12, in un’edizione con carta preziosa) c’è la storia del Gigante a due Teste, di come il protagonista del racconto Gambette Rosse sia riuscito con facilità a sconfiggerlo, trafiggendolo mentre il mostro litigava con se stesso. Il conflitto interiore che ci racconta l’autrice è tra il suo desiderio di rientrare in Italia, dopo oltre un decennio di lontananza, e l’incapacità di riuscirci.
Il tema degli espatriati è stato spesso citato negli ultimi anni con l’espressione un po’ infelice: «cervelli in fuga», mentre Lisa Ginzburg ci racconta di quando a essere «in transito» è lo spirito.

Le prime pagine si concentrano sugli aspetti più pragmatici dell’esistenza all’estero, come il rapporto con la lingua. Si sofferma sul dispetto che, in fondo, fa a stessa di non voler diventare bravissima a pronunciare il francese, perché significherebbe decretare di appartenere di più a quel paese straniero che non alla sua vagheggiata terra natale. Sempre in questa parte del testo viene sancita una verità ineluttabile: è «la vergogna il sentimento che più risveglia un senso di appartenenza al proprio paese». Per chi ha vissuto all’estero è immediata l’evidenza di questa affermazione, perché per quanto si possa seguire con partecipazione la politica altrove, gli errori e gli scandali ascrivibili ai governanti stranieri non suscitano vergogna, anzi.

Questi riferimenti ad aspetti del vivere la cittadinanza da espatriata conducono la scrittrice ad addentrarsi nelle ragioni più profonde per cui anche lei si sente un gigante con due teste: la nostalgia ossessiva, per esempio, si rivela essere un tentativo impossibile di cristallizzare il tempo, di fare sì che il presente, almeno nella propria mente, coincida con il passato, che nulla sia intervenuto a cambiare le relazioni, i luoghi, gli affetti giovanili. Per questo, tornare davvero significherebbe accettare invece «il trascorrere», «calarsi nel tempo (….) che vivere, per ognuno, si risolve nel rapporto col tempo». Per chi come l’autrice, invece, tende suo malgrado a evitare a tutti i costi questa immersione, prevale il desiderio continuo di essere in transito, cioè nell’«oblio», da una parte, ma anche alla ricerca costante di sempre maggiore intensità «perché è lì, in quello spazio sospeso, che i giorni più trovano ossigeno, libertà».

Fin dalle prime pagine, poi, viene identificata un’altra ragione fondamentale per la quale Ginzburg non si sottrae a questa doppiezza, spesso dolorosa, a questa impossibilità di appartenenza e quindi di essere a casa, la creatività: «vivere distanti da quello che si pensa come il proprio centro, la propria casa, molte volte è nutrimento per l’immaginazione». Questa idea ritorna spesso nel libro, fino a condensarsi nelle sezioni finali, dedicate a autrici e autori che hanno scritto a partire da una relazione complessa o traumatica con l’abitare la propria casa. A inaugurare questa parte, Anna Maria Ortese, il suo rapporto d’amore e poi di rifiuto per i luoghi in cui ha vissuto e che ha dovuto lasciare o l’hanno rigettata, Gogol, James Joyce, la scrittrice Jean Rhys, grazie alla quale Lisa Ginzburg nomina l’apatridismo, la sua inesorabilità, che solo nei giorni migliori è possibile chiamare nomadismo.

Nel terzo e ultimo passaggio, dopo aver compiuto quello dalla propria esperienza personale ai racconti letterari, forse grazie anche all’ampliamento di orizzonte che regala la lettura, l’autrice torna a sé per ridarsi forma, la giusta misura. Posizionandosi all’interno di una società, di un ritmo in cui domina la tendenza a essere degli esprits déplacés, «in un tempo sillabato da un grande vuoto e da un’ancor più grande paura del vuoto», descrive il bisogno schizofrenico e diffuso di sentirsi a casa volendo sempre un altrove dove evadere. Per questo, salvando la fertilità creativa dell’inquietudine, ritorna alla saggezza che poi fu del grande filosofo francese Michel de Montaigne, che sapeva di poter andare nel mondo anche stando fermo nelle sue campagne isolate, scoprendo con la lettura e avventurandosi nell’anima.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento