Cultura

L’esorbitante scoperta della dipendenza

L’esorbitante scoperta della dipendenza

SCAFFALE «L’infamia originaria», di Lea Melandri. Dopo 40 anni, rieditato uno dei testi storici del femminismo italiano

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 4 dicembre 2018

«Il problema della dipendenza, oltre a essere più che mai attuale, è come se si rivelasse ora carico di implicazioni complesse e profonde. Di fronte a un ordine che sta franando, lo sforzo di saldare le spaccature e di coprire le voci dissonanti risponde a un bisogno di conservazione non meno materiale della conservazione fisica in senso stretto. Le stesse persone che auspicano lo sfaldamento della piramide capitalistica non sempre riescono a sottrarsi alla tentazione di rinsaldare i vertici di altre organizzazioni solo apparentemente alternative». La citazione è tratta dalle prime pagine del volume L’infamia originaria, di Lea Melandri, appena ripubblicato per manifestolibri (pp. 144, euro 15) e costituisce una sorta di filo conduttore di tutto il testo.

IN ANNI in cui si esaltava il concetto di autonomia Melandri, controcorrente, invitava a riflettere sulla dipendenza, contrapponendo quindi a una rappresentazione ideale dell’agire politico la materialità di una sopravvivenza che esorbitava l’ideale e che nell’ideale non si lasciava ricomprendere. Questa eccedenza indicava la sopravvivenza di qualcosa di arcaico che il politico aveva espulso e che forse nel politico non poteva essere ricompreso. Contro le reificazioni che risolvevano il problema attribuendo concretezza a entità astratte, ricercava le linee di frattura che indicavano un oltre, le esperienze quotidiane che mostravano come le magnifiche sorti e progressive fossero afflitte da scorie che non potevano essere eliminate a priori, pena il loro riemergere sotto altre forme, mostrando nella ripetizione, nel loro ritorno la persistenza di un rimosso che comunque voleva emergere.

INTRAVEDEVA allora nel «miserabilismo di sinistra» un elemento di critica a chi riduceva l’esistenza all’economico, alla critica dell’economico, il resto sarebbe arrivato. La sua analisi dell’occupazione delle case di via Tibaldi metteva in luce un altro aspetto della dipendenza che si creava tra gli occupanti e coloro che organizzavano l’occupazione. «La dipendenza accresceva quindi anche la competizione tra le famiglie e l’aspettativa nei confronti dei compagni. Lo sviluppo dell’autonomia richiede un estremo impegno da parte di tutti perché ci sia effettivamente la responsabilizzazione e la partecipazione attiva di tutta la collettività». Il richiamo alla responsabilità andava allora inteso come richiamo alla capacità di rispondere, di assumersi il peso di una risposta che evitasse di eludere il problema della dipendenza che non interrogata, accantonata, si riproponeva come presente e pervasiva.

Un discorso coraggioso, che indicava quel che non si voleva vedere, che cercava di includere nell’oggi quel che dello ieri continuava a sopravvivere, la parte oscura, perché la dipendenza attraversava le storie di ciascuno, il come ognuno ci aveva fatto i conti, soprattutto apriva alle relazioni tra uomo e donna, alle relazioni tra donne e tra uomini, alla vita quotidiana che non poteva essere interamente nel politico, ma necessitava comunque di parole che potessero dirla, connotarla, darle un senso che non poteva nascere ex novo se non faceva i conti con un passato che la segnava come pesante zavorra. «Se la politica è così carica a nostra insaputa delle situazioni personali, allora anche la politica va ripensata a partire da tutto il cumulo del non detto, del negato che c’è dentro».

NEL NON DETTO rientrava la paura, le paure che accompagnavano le esistenze e che facevano da sfondo o tessevano le trame di scelte che venivano giustificate in termini ideologici per garantire la sopravvivenza dell’ideale. L’ideale esaltava l’autonomia senza fare i conti con le paure che l’accompagnavano e che riproponevano nuove dipendenze, che venivano agite proprio perché non dette. In questo vicina a tutto il lavoro del gruppo de «L’erba voglio» che cercava di problematizzare quel che veniva dato per scontato. Il darsi le leggi si risolveva spesso nell’accettazione di nuove leggi, a volte più coartanti perché si faceva coincidere idealmente lo scegliere con il subire. Contro queste coincidenze il lavoro di Lea Melandri cercava di svelare i nessi che venivano facilmente saltati, denunciando una presunta oggettività che faceva coincidere l’oggettivo con il naturale liquidando il problema, ma anche trovando che il nesso tra natura e cultura andava affrontato, non in cerca della soluzione ma in un lavoro che ne tenesse conto.

MA OGGI ripubblicare questo lavoro non può risolversi in un lamento su ciò che poteva essere e non è stato. Oggi quando per dirla con Scurati si sta trasformando la paura in odio, il richiamo alla responsabilità è ancora più urgente. Il testo allora può essere riletto come un invito a poter dare parola alle paure, un sobrio richiamo alle difficoltà che ci attraversano per fermare la caduta verso l’odio, un rifiuto di facili schematismi che indicano sempre nell’altro la fonte delle paure per riconoscerle invece come nostre, come una formazione di compromesso che ci appartiene e con la quale occorre fare i conti. «C’era la smentita continua della dipendenza nel senso che la risposta magari non veniva dalla persona da cui la si aspettava, ma da un’altra». In questa frase riferita a un lavoro in un gruppo di donne troviamo un’apertura alla parola dell’altro, al saper ascoltare come indicazione di una strada in cui la parola non ricopre certo tutto, ma il dire aiuta a fermare l’odio.

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