Ripercorrere la traiettoria dei Les Rallizes Dénudés – la band più influente e misteriosa della scena underground giapponese – è un’esperienza affascinante e frastornante, proprio come ascoltare le loro canzoni. La loro biografia è un intreccio di aneddoti reali e leggende mai verificate, amplificate da un passaparola che si rincorre da più di mezzo secolo nonostante la band abbia fatto di tutto – o quasi – per disorientare gli appassionati.
Formatisi a Kyoto nel 1967 e discontinuamente attivi fino agli anni Novanta, con il loro psych rock dissonante hanno raggiunto una grande popolarità anche in Occidente, per lungo tempo senza nemmeno saperlo. Il tutto, senza mai registrare un album in studio: per decenni, infatti, la loro musica è stata diffusa soltanto attraverso sgangherate registrazioni dei loro live. Inoltre, nessuno conosce il numero, né l’identità precisa, dei musicisti che hanno fatto parte del gruppo, e anche l’unico componente fisso, il leader Takeshi Mizutani, era noto per la sua elusività. Fino alla fine: nonostante sia morto nel 2019, tutto il mondo lo ha saputo solo due anni più tardi, attraverso un freddo comunicato apparso su un sito internet.
L’etichetta Temporal Drift ha pubblicato di recente Città ’93 e Baus ’93, registrazioni di due concerti rimaste inedite per trent’anni, avviando un ciclo di restauri e ristampe che ha riacceso i riflettori sulla band. Considerata la loro influenza, l’attitudine punk – ben prima del punk – e le sonorità psichedeliche, molti considerano Les Rallizes i Velvet Underground del Sol Levante. Tuttavia, il paragone rischia di essere riduttivo: tra suoni ipnotici, volumi assordanti e un bassista coinvolto in un’azione terroristica internazionale, la loro parabola è tanto unica quanto difficilmente replicabile.

CAPITALE CULTURALE
Questa storia si svolge a Kyoto, da sempre considerata la capitale culturale giapponese per i celebri templi di età imperiale e per le sue prestigiose università. Una di queste, la Doshisha, negli anni Sessanta era il punto di riferimento di una generazione – la prima nata nel periodo post-bellico – progressista e anticonformista, che rifiutava il primato culturale statunitense e rivendicava nuovi spazi e forme di espressione. Takeshi Mizutani, studente di sociologia, piombò in questo ambiente a diciannove anni nel 1967, e la sua vita cambiò in pochi mesi. Un collettivo studentesco lo introdusse all’esistenzialismo francese e ad autori come Sartre, Camus e Derrida – valide alternative alle letture americane – e al foku, la variante giapponese politicamente impegnata del folk. Con alcuni compagni di corso, tra cui Moriyasu Wakabayashi (segnatevi questo nome) avviò il suo primo progetto musicale: un gruppo, senza nome né uno stile specifico, con cui iniziò a suonare nei fumosi club della città. È in questo contesto sotterraneo che, poco più tardi, entrò in contatto con una compagnia teatrale d’avanguardia, la Gendai Gekijo. Un incontro decisivo, che fece evolvere il suo acerbo esistenzialismo verso forme espressive più strutturate, il loro manifesto, che dichiarava la «negazione di ogni stile di teatro esistente» e lo slang franco-giapponese che usavano nelle loro rappresentazioni affascinarono Mizutani: a quanto sembra, il nome Rallizes Dénudés, che in francese non significa nulla, è la storpiatura di un termine – «valisee denudé», valigie vuote – che la compagnia utilizzava per definire persone futili, irrilevanti.
Con questo nuovo nome, la band sposò un approccio, spregiudicato e ribelle: l’«assalto sensoriale totale». Influenzati da band come i Blue Cheer e i Velvet Underground di White Light/White Heat e con l’ausilio di lisergici effetti luminosi forniti dalla Gendai Gekijo, le esibizioni del gruppo diventarono l’evento più allucinante e chiacchierato della scena musicale cittadina. Il folk degli inizi era relegato al minimo, con testi ermetici, distorti o soltanto accennati; la sezione ritmica forniva un ancoraggio melodico ipnotico, sovrastato da un muro di feedback e fuzz chitarristici improvvisati da Mizutani a volumi esagerati e spaccatimpani. Ogni live era diverso dal precedente, ogni canzone non era mai eseguita alla stessa maniera: il pubblico usciva dai concerti emozionalmente sconvolto, ma con qualcosa da raccontare. La stampa iniziò a interessarsi al fenomeno, e i locali alternativi a scritturare la band, che fu tra le più acclamate in un festival organizzato all’interno dell’Università di Kyoto occupata nel 1968. Sull’onda dell’entusiasmo, il gruppo provò a registrare un album in studio, ma i risultati furono così deludenti che l’esperienza durò solo pochi giorni: le improvvisazioni di Mizutani non avevano niente a che fare con i canoni discografici del tempo.

VERSO IL DECLINO
Nel 1970 tutto cambiò, ma non in positivo. Wakabayashi, bassista della band, nello stesso periodo militava nella Red Army, la fazione estremista della Lega comunista giapponese: il 31 marzo di quell’anno faceva parte del commando, formato da nove ragazzi tra i diciannove e i ventuno anni, che dirottò un volo di linea partito da Tokyo prendendo in ostaggio 129 passeggeri. I guerriglieri, armati di katana, chiesero ai piloti di dirigersi verso Cuba; tuttavia, per mancanza di carburante e dopo lunghe trattative che coinvolsero il ministro dei trasporti giapponese, l’aereo venne fatto atterrare in Corea del Nord, dove i giovani vennero accolti come eroi della rivoluzione ricevendo asilo politico. La reazione, in Giappone, non fu la stessa: la partecipazione di Wakabayashi gettò in un vortice di oblio e paranoia Mizutani che, deluso e sorvegliato dalla polizia, si trasferì a Tokyo, suonando saltuariamente e riducendo al minimo i contatti con l’esterno.
Secondo quella che è considerata la bibbia del rock giapponese – Japrocksampler, scritto dal musicista, sciamano e musicologo Julian Cope nel 2007 – l’imperturbabile Mizutani non si emozionò nemmeno quando nel 1977 gli arrivò la voce che il punk stava travolgendo l’Europa: quello spirito iconoclasta, in effetti, era il suo marchio di fabbrica già da un decennio. La nuova moda, però, contribuì a risvegliare l’interesse per i Les Rallizes, che tornarono a esibirsi regolarmente fino alla fine degli anni Ottanta, quando Mizutani svanì di nuovo dalle scene, trasferendosi improvvisamente in Francia. Il loro ultimo ritorno, prima del definitivo scioglimento, fu nei primi anni Novanta: Mizutani approvò la pubblicazione di alcune registrazioni d’archivio, rendendole le prime uscite «ufficiali» del gruppo; nello stesso periodo uscì anche un documentario, diretto dal fantomatico regista francese Ethan Mousiké: leggenda narra che dietro questo goffo pseudonimo si nascondesse il fondatore del gruppo.
I nuovi album, Città ’93 e Baus ’93, sono un prezioso contributo per ricostruire con più precisione – e una maggiore qualità d’ascolto – l’evoluzione artistica della band, che fino a ora era stata analizzata in maniera frammentaria solo attraverso i bootleg che ciclicamente comparivano sul web. Musicalmente, ciò che non è mai cambiato – dai primi tempi della psichedelia al lo-fi rumoristico degli ultimi anni, passando per una fase semi-acustica – è il suono graffiante della chitarra, con cui Mizutani, fin dagli inizi, ha creato un nuovo genere, «negando tutti gli altri stili esistenti». È anche per questo che intere generazioni di artisti – solo in Giappone band come Acid Mother Temple, Fushitsusha, Melt-Banana e altre – oggi riconoscono ai Les Rallizes il ruolo di pionieri assoluti della musica sperimentale.