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L’errore di Ghani, puntare sulla difesa delle città abbandonando gli avamposti

L’errore di Ghani, puntare sulla difesa delle  città abbandonando gli avamposti

Emergency Per gli islamisti il limite è lo scollamento tra «politici» e «guerriglieri»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 15 agosto 2021

Per cercare di spiegare cosa abbia giustificato un’ascesa tanto rapida delle conquiste talebane, ormai al controllo di oltre la metà delle capitali provinciali e delle città più importanti, il dito viene puntato sia sulla debolezza dell’esercito afgano (soldati «fantasma», incapacità di agire in autonomia, corruzione, diserzioni) sia su quella dell’esecutivo i cui errori sono sotto gli occhi di tutti a cominciare da Ashraf Ghani, il Presidente, che finora ha tenuto accentrato il comando, non accettando di non essere più lui alla guida o rifiutando di far parte di un governo di coalizione con la guerriglia.

Ghani ha anche imposto alle province uomini suoi come governatori, spesso invisi ai locali, come nel caso di Daud Laghman, governatore di Lashkargah (arresosi e poi arrestato) che prima era stato imposto a Faryab, zona di cui non conosceva nemmeno la lingua locale.

Cattiva scelta forse anche puntare solo sulla difesa delle città, abbandonando avamposti e medie cittadine anche se viene da chiedersi quali siano i numeri reali di un esercito che sulla carta, tra soldati e poliziotti, doveva contare su almeno 300mila uomini.

Viene anche da chiedersi quanto abbia funzionato un addestramento durato vent’anni e se i militari (americani e della Nato) non avessero previsto quel che ora vediamo (come ora stanno ammettendo). «Molti militari se lo aspettavano – dice Gastone Breccia, autore di diversi libri di storia militare del Paese – ma non potevano dirlo. Quanto all’addestramento, è stato fatto bene ma con un grosso neo: noi – dice l’autore di “Missione fallita” (Il Mulino) – mandiamo avanti gli altri, non perché non sappiamo più combattere ma perché la politica lo impedisce: per evitare morti pesanti sul piano elettorale. Ciò ha fatto sentire il soldato afgano carne da cannone. E poi – aggiunge – più che la nostra dipartita ha pesato la mancanza dell’appoggio logistico, fondamentale per i rifornimenti e il sostegno ai combattenti», cui vanno aggiunti i furti di benzina, le paghe di soldati solo sulla carta, la corruzione e la mancanza di uno Stato in cui credere: «Quando i Talebani arrivano, trattano. E se la tua motivazione non è abbastanza forte, accetti la resa e se puoi torni ai tuoi campi».

Molti sono d’accordo anche sull’impatto psicologico: la rapida conquista, seppur dei pezzi più facili del puzzle, demoralizza. Ma anche per i talebani non tutto è così facile. Conquistare Kabul può essere una passeggiata se la città si arrende ma anche una cruentissima battaglia se resiste. Se dopo l’uscita dell’Urss resistette tre anni, quando nel 1995 iniziò l’avanzata talebana, allora apertamente sostenuta da Islamabad, le conquiste furono rapidissime tra gennaio e marzo.
Ma l’avanzata si fermò il 19 marzo alle porte della capitale. Allora i Talebani presero tempo e si rivolsero al Nord del Paese. Anche ora, inizialmente, i Talebani han tentato la spallata a Kandahar, Herat e Lashkargah dove un po’ di resistenza si è vista.

Si sono dunque rivolti a città minori ma importanti, rafforzando la loro nomea di invincibili, e in un secondo tempo son tornati alle grandi città tenute comunque sotto pressione: facendole cadere.

Ma questa avanzata rapida ha una serie di buchi neri: il primo sembra essere la differenza tra guida politica (Rahbari Shura, ossia i negoziatori di Doha in abito bianco e barbe curate) e i comandanti sul terreno. In un’illuminate doppia intervista per la Bbc della coraggiosa Yalda Hakim, la reporter parla sia con Suhail Shaeen, portavoce dei negoziatori di Doha, sia con Maulana Mohamed, comandante talebano del Sud che, sorprendentemente, alloggia tranquillo a Kabul. Il primo si dice a favore di istruzione e lavoro femminile, il secondo giustifica la morte per le adultere o il taglio di mani e piedi ai ladri.

Chi dice il vero? Nel mezzo pare esserci lo scollamento tra vertici politici – istruiti e strategici – e comandanti locali – rozzi e tattici. Una frattura che potrebbe essere fatale se è vero che la necessità di aumentare la truppa ha fatto lasciare dai vertici carta bianca, non solo ai rais locali, ma anche a gente che viene da fuori: miliziani dai Paesi vicini (dall’Uzbekistan al Turkestan cinese) o siriani e iracheni senza più il soldo dell’Isis.

Anche l’apertura delle prigioni, con reclutamenti forzati di ladri, assassini e poveracci, sembra un segnale di debolezza che fa numero ma crea problemi di disciplina. Infine i Talebani avranno due problemi: governare tutto ciò che hanno conquistato mantenendo un equilibrio tra le due anime, e la comunità internazionale. Con cui un Paese deve comunque fare i conti.

Sulla forza reale dei Talebani i numeri si sprecano: l’Onu li stimava a 80-100mila. L’US Combating Terrorism Center di West Point a 60.000, numero che con l’aggiunta di altri miliziani potrebbe però superare i 200mila.

La domanda resta: a cosa sono serviti 88 miliardi di dollari pagati dagli Usa solo per l’esercito (cui l’Italia – dice il rapporto Milex – ha contribuito con 840 milioni di euro)? Vien da dire che se gli insegnanti han perso la guerra è difficile che la vincano gli allievi.

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