Eugène Leroy, “Autoportrait”, 1958 ca., Roubaix, collezione privata

Se c’è un artista per cui il palindromo tedesco Leben / Nebel (vita / nebbia) funziona come riflesso immediato di un ipertrofico modus operandi, questo è proprio Eugène Leroy (Tourcoing, 1910 – Wasquehal, 2000). L’osmosi tra la sua vita interiore e il motivo che dipinge è un continuo, incessante sovrapporsi di energie vitali e strati di materia che opacizzano l’immagine nell’atto stesso di trasfigurarla. «Tutto ciò che ho cercato in pittura è di arrivare (…) a una sorta di quasi assenza, in modo che il dipinto sia totalmente sé stesso», dice Leroy nel 1979.
La sua esperienza artistica, divisa a lungo con l’insegnamento di latino e greco, e rimasta per anni carsica per la gioia di rari e acuti rabdomanti, è un assiduo avvilupparsi di sensazioni del reale e visione ideale della pittura. Non a caso la sua opera viene notata durante un’esposizione nel 1961 presso la galleria parigina di Claude Bernard da un giovanissimo Baselitz che, catturato da quest’opera rigorosa e solitaria, ne scrive dicendo di avervi trovato «immagini marroni, come campo, come pietra, come legno, come muschio, come odore. Una semplice composizione olandese con un’incredibile accumulazione di colori. Un ammasso di lamiere proveniente da una piccionaia che mi illuminava la testa».
«In fondo io non produco tele, io faccio della pittura», afferma Leroy, che vede ogni lavoro non come singola realizzazione, ma come tappa di un tutto, un passaggio per un progetto più ampio. Il Musée d’Art Moderne di Parigi – che è oggi uno dei luoghi più rappresentativi dell’artista e che già nel 1988 aveva ospitato una sua personale – gli dedica (fino al 28 agosto) un’importante retrospettiva con circa centocinquanta opere, tra dipinti e grafica, realizzate in più di sessant’anni di attività. La mostra Eugène Leroy, peindre, curata da Julia Garimorth con l’assistenza di Sylvie Moreau-Soteras (catalogo Éditions Paris Musées, pp. 511, € 65,00), è opportunamente organizzata in sezioni. Esse ci accompagnano nella formulazione del linguaggio autonomo che l’artista ha elaborato ingaggiando un libero corpo a corpo con opere del passato (nel tempo egli si è creato una fortissima erudizione pittorica recandosi in musei europei, statunitensi e russi) e rivisitando tutti i soggetti iconografici tradizionali, dall’autoritratto al nudo, dalla natura morta al paesaggio. Leroy radicalmente rifiuta la dicotomia figurazione-astrazione. Non si è mai sentito parte né dell’una né dell’altra corrente. Nella sua opera ci troviamo di fronte a una rappresentazione che sfugge all’imitazione, in cui però la rassomiglianza all’immagine è ricercata sotto forma di essenza.
All’età di 15 anni, Leroy scopre un piccolo libro su Rembrandt con riproduzioni in bianco e nero che determina la sua vocazione di pittore. In mostra due tele come Femme au bain del 1935 e D’après La ronde de nuit del 1990 evidenziano una profonda fedeltà al genio olandese.
Ma se per Rembrandt il sentimento è quello di un primo amore, è in età matura che Leroy comprende la «pittura pura» di Giorgione. Tra il 1989 e il 1992 realizza per ben cinque volte Concert champêtre, variazioni sul tema dell’opera del maestro veneto. Ciò che colpisce di questa serie non è ovviamente la totale dissomiglianza delle singole opere con il Concerto giorgionesco, in cui si possono vagamente intuire il musico al centro vestito di rosso e i due nudi femminili ai lati, quanto piuttosto il modo in cui Leroy varia per ciascuna di queste opere il proprio approccio al soggetto e la sua tavolozza, con una sempre nuova strategia compositiva.
Ma al di là delle ragioni compositive, in Leroy è la luce a essere fondamentale. È con il motivo dei paesaggi, e più in particolare degli alberi, che sperimenta gradualmente l’energia del controluce: «Il controluce agisce nella mia pittura sin dalla mia giovane età, ma a mia insaputa», dice. Nel suo studio a Wasquehal, dove si stabilisce definitivamente nel 1958, egli crea un campo di azione luminoso per i suoi ritratti, nudi e nature morte. L’illuminazione viene creata ad hoc affinché il motivo compositivo sia illuminato da più parti: da una finestra a sud e dalla tettoia a nord. L’artista vi aggiunge anche un’ulteriore fonte di luce indiretta grazie a uno specchio. Il soggetto del suo dipinto è quindi illuminato frontalmente, da dietro e di lato: «(La materia) non esiste se non è impregnata di luce.Mi piacerebbe davvero fare un dipinto che abbia la sua luce propria».
Egli parla di «lumière sourde», evocando – in un certo senso misticamente – una fonte di luce che si troverebbe all’interno della materia. Fondamentale per lui è stata l’esperienza vissuta davanti a un’icona russa alla Galleria Tretyakov, durante un viaggio a Mosca nel 1974. La foglia d’oro col tempo si era brunita e aveva perso la sua lucentezza iniziale. Per Leroy, «rispettare la foglia d’oro non è farla dorare, è fare quello che la foglia d’oro fa. Essa riflette la luce in maniera densa, luminosa e al contempo soffusa».
Leroy, in epoche diverse, ha realizzato anche innumerevoli autoritratti. In mostra ne sono presenti diciotto che vanno dal 1958 al 1989. L’artista tiene a specificare che «questi non sono autoritratti. Sono teste». E aggiunge: «non è la struttura della testa che mi interessa. Dio solo sa, però, che ho disegnato teschi per la struttura! Ma la tensione della tempia, il barocco dell’orecchio, il globo dell’occhio (…) la bocca (…), questo buco nero è qualcosa di straordinario per me». Se nei primi potenti autoritratti sono ancora riconoscibili i lineamenti del volto, col tempo essi diventano più complessi. Gli occhi si fondono sempre più con macchie scure come cavità, prima di scomparire nel nero del controluce. «Le teste», poi, si dissolvono progressivamente in una massa informe fino a far svanire anche solo la possibilità di percepirne la presenza. Nelle distorsioni dei primi autoritratti il confronto si impone con Francis Bacon. Ma Leroy, pur se ammirativo della serie su Van Gogh del britannico, ne è profondamente irritato quando questi sovrappone i volti a sfondi geometrizzanti.
Ogni opera di Leroy risulta da un lungo processo di stratificazioni che richiede una grande quantità di pittura. «La pittura vorrei semplicemente toccarla un giorno. Solo toccarla», afferma Leroy. L’artista convoca i sensi per rendere il proprio lavoro ancora più presente. La qualità tattile dei lavori dunque gioca per lui un ruolo quintessenziale. La sua prassi pittorica risiede in una complessa rielaborazione delle tele, che a volte richiede anni, fino a quando il motivo iniziale, se non del tutto, quasi scompare dietro strati e strati di colore.
Nello studio le tele si ammassano e si nascondono. Leroy le riprende e le abbandona. Col tempo le riscopre finite o ancora da lavorare. In questo alternarsi di sospensioni e accumulazioni, il tempo della vita e il tempo del lavoro si confondono. Diventano uno. Per questo la difficile leggibilità delle opere impone un’attenzione maggiore. E sempre per questo l’ostacolo nel rilevare di primo acchito il motivo dipinto permette allo spettatore di soffermarsi sulla presenza fisica dell’opera, sui suoi rilievi, crepe e alterazioni. Qui si comprende che sottrazione e accumulazione giocano lo stesso ruolo. Sottrazione dell’immagine significa accumulazione di strati. Accumulare colori vuol dire in Leroy raggiungere l’essenza di una percezione capace di conservare intatta e tangibile l’emozione che la rende viva.