L’ergastolo del dolore, l’anestesia affettiva
Ne Il buio su Parigi, il bello e intenso libro di Giovanna Pancheri, è contenuta un’intervista a Andrea Solesin, fratello di Valeria uccisa barbaramente, con tanti altri giovani appartenenti a […]
Ne Il buio su Parigi, il bello e intenso libro di Giovanna Pancheri, è contenuta un’intervista a Andrea Solesin, fratello di Valeria uccisa barbaramente, con tanti altri giovani appartenenti a […]
Ne Il buio su Parigi, il bello e intenso libro di Giovanna Pancheri, è contenuta un’intervista a Andrea Solesin, fratello di Valeria uccisa barbaramente, con tanti altri giovani appartenenti a un mondo multireligioso e multiculturale, nell’attentato terroristico al Bataclan. L’intervista, un concentrato di sofferenza, finisce con queste parole di Andrea: «Questo non è un semplice lutto. È l’ergastolo del dolore».
È molto difficile elaborare il lutto di una persona cara quando la perdita è un fatto impersonale che espropria chi la subisce dei propri affetti privati. L’atto preliminare dell’elaborazione della perdita di un oggetto amato è il prolungamento della sua vita nel proprio mondo psichico (Freud). Ci si sente come se la persona perduta fosse ancora presente anche se la sua assenza fisica è percepita. Ci si appropria in questo modo di essa interiormente per ritrovarla successivamente dentro di sé come valore interno e fuori di sé nelle persone in cui rivivono aspetti del suo particolare modo di essere. Il prolungamento psichico della vita dell’oggetto perduto si complica gravemente quando l’atto che sancisce la sua scomparsa è un evento pubblico troppo ingombrante per essere transitoriamente negato, che colpendolo in modo anonimo rende difficile l’elaborazione affettiva della sua mancanza.
Il dolore per la morte di propri cari derivata da una forza distruttiva che colpisce in modo indiscriminato, richiede, perché possa essere alleviato, un’elaborazione collettiva della perdita non solo delle vittime ma anche dei loro uccisori. Non è sufficiente seppellire Eteocle perché il processo catartico si compia. Anche a Polinice spetta il rito di sepoltura. Il lutto dei nemici è parte dell’assunzione della nostra responsabilità per la degenerazione di conflitti di cui non possiamo dichiararsi innocenti. Serve anche a recuperare il legame umano spezzato tra aggressore e vittima e dare senso alla catastrofe compiuta.
Le tragedie di oggi si ripetono in modo insensato e i loro promotori agiscono in modo operativo, meccanico che sopprime i propri sentimenti. Non sono razzisti perché non proiettano nell’altro la propria vulnerabilità, per costringerlo a una condizione di inferiorità, ma, uccidendolo, mirano a distruggere la propria umanità che percepiscono come debolezza. Non sono esattamente fanatici perché non sono attraversati dal dubbio che ispira la rigidità del fanatismo. Non sono neppure terroristi veri e propri perché non aspirano alla costituzione di un nuovo ordine, nato magicamente dalle ceneri del vecchio, ma perseguono l’ideale di una resurrezione che istituisce la vita come morte psichica perenne.
A guardarli bene sono il prodotto estremo della nostra anestesia affettiva, dell’incapacità di vivere le nostre esperienze in modo profondo, del progressivo svuotamento emotivo delle nostre relazioni. I processi spersonalizzanti che affliggono la nostra civiltà producono nella periferia del suo corpo i sintomi più allarmanti.
Intervistato da Giovanna Pancheri, tre anni prima di essere ucciso, il direttore di Charlie Hebdo Stephane Charbonnier aveva di fatto indicato come bersaglio del suo giornale tutte le forme di intolleranza. Sbagliava diagnosi perché la malattia con cui si è trovato inconsapevolmente a combattere era l’indifferenza che colpisce alle sue radici il processo di co-costituzione tra noi e gli altri.
Impigliati nella malattia trattiamo i suoi sintomi come pericolo esterno. Inseguendo l’ideale mortifero di una società a-conflittuale abbiamo smarrito il legame fondamentale con il nemico e lo cerchiamo invano, ignari di ospitarlo in noi.
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