Internazionale

L’ergastolo al professore uighuro e la sicurezza di Xi Jinping

L’ergastolo al professore uighuro e la sicurezza di Xi JinpingLa cover dell'Economist – Reuters

Cina Dopo la condanna dei separatismi, Xi Jinping ha il pieno controllo del Partito

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 25 settembre 2014

Questa settimana l’Economist ha dedicato l’ennesima copertina a Xi Jinping, il presidente della Repubblica popolare cinese. Una scelta particolare: nel pieno delle questioni legate all’Isis, al cambiamento climatico, la nota testata inglese ha scelto la Cina. In particolare ha scelto il suo leader, Xi, che ha saputo raccogliere intorno a sé più potere di quanto non fecero Mao o Deng Xiaoping che – seppure in modi e tempi diversi -cambiarono per sempre il volto al paese.

La scelta dell’Economist dice alcune cose rilevanti: intanto che la stampa internazionale è molto più attenta a quanto succede in Cina, di quanto non faccia quella italiana ancora agganciata alla «narrazione degli eccessi», quando non a racconti superficiali o a presentare la Cina come «la fabbrica del mondo» quando ormai si tratta di un passaggio nella soffitta della storia. La Cina punta su innovazione, ricerca, sviluppo di brand e immaginari internazionali. Non è detto ci riesca, ma la direzione, da anni, è ormai chiara.

La seconda considerazione è relativa all’importanza «storica» di questo potere accumulato da Xi Jinping. La copertina del magazine, infatti, è arrivata nella settimana in cui la Cina ha condannato all’ergastolo il professore uighuro Ilham Tohti, con l’accusa di separatismo. L’ex docente è stato accusato di aver diffuso idee separatiste; i politici e i giudici sanno bene che Tohti è un moderato, ma proprio in questo si racchiude la forza della sentenza.
Contro chi rischia di minare l’armonia delle «periferie», leggi Xinjiang e Tibet, non c’è alcuna soluzione possibile se non la repressione feroce (sia militare, sia giudiziaria). Zone troppo importanti, economicamente e geograficamente, perché siano permessi disordini e problemi capaci di complicare le cose anche all’interno del paese. Da questa constatazione ne discendono altre due.

La prima: abbiamo visto «dissidenti», attivisti, condannati a 10 o 11 anni di carcere, come ad esempio il premio Nobel Liu Xiaobo. Si tratta di sentenze pesanti per reati di opinione, anche se la Cina li etichetta come «sovversione di Stato», ma non sono l’ergastolo. Questo fatto, crudo ma chiaro, specifica che il partito comunista cinese ha il completo controllo della situazione politica interna. Rimane al centro di tutta la struttura politica e sociale del paese: è messo in discussione da pochi, che vengono colpiti, ma non come chi mette in discussione il centro nevralgico dell’identità cinese: la territorialità e con essa la sovranità.

Anzi, pur mugugnando, i cinesi vedono nel Partito l’argine contro la confusione, il rischio di sconvolgimenti violenti, cui la storia cinese li ha abitutati. La seconda constatazione è riassunta molto bene da un articolo apparso recentemente sul Wall Street Journal, dal titolo emblematico, «Misunderstanding China», scritto da Michael Pillsbury, ex consulente del ministero della Difesa americana. Il giudizio di Pillsbury sul modo con il quale l’Occidente ha sempre spiegato la Cina è impietoso.

[do action=”citazione”]«Dopo 40 anni di studio sulla Cina, scrive, ho concluso che il problema non è la Cina, ma siamo noi».[/do]

E aggiunge che «abbiamo proiettato sui cinesi la piacevole immagine di una democrazia in attesa, o una docile civiltà confuciana alla ricerca di armonia globale. Dopo 65 anni, noi non sappiamo quello che la Cina vuole perché non abbiamo veramente ascoltato cosa dicevano i cinesi».

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E cosa dicono dunque? Che il Pcc «non ha alcuna intenzione di finire nel dimenticatoio della Storia», anzi, è raccolto intorno al suo leader, che ha uniformato ideologicamente Partito ed esercito, con una campagna in stile maoista e capace di tenere insieme sia le frange più nazionaliste, sia quelle più liberali, attraverso alcune riforme che saranno in grado di portare ad una vera e propria redistribuzione del reddito tra i suoi cittadini.

Ha accontentato i nazionalisti imponendo la zona di difesa aerea sulle isole contese con il Giappone, mantenendo l’alleanza con la Corea del Nord e piazzando piattaforme petrolifere nelle acque contese – e fondamentali per rotte commerciali e risorse – del mar cinese del sud.

(nella foto in alto a sinistra la mappa della BBC)

Ha promesso, ai liberali, la liberalizzazione di alcuni settori economici e lo smantellamento della aziende di Stato meno rapide a concepirsi internazionali. È questa la forza di Xi Jinping, di cui parla l’Economist e che per certi versi viene riconosciuta da tutti gli osservatori: aver tenuto insieme il Partito dopo uno scandalo clamoroso come quello di Bo Xilai e averlo unificato sugli obiettivi primari che la Cina vuole raggiungere.

Ci sono molti punti oscuri, naturalmente, ma l’Occidente deve accettare – per dialogare davvero con Pechino – che il sistema a partito unico ai cinesi, per ora, pare andare piuttosto bene.

(La figlia di Ilham Tohti, intervistata da http://www.pen.org/)

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