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L’eredità «sociale» di Berta Caceres

Anniversari Cinque anni fa la militante ambientalista honduregna veniva uccisa da sicari assoldati dalla ditta che stava costruendo una contestata diga

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 4 marzo 2021

Tra tutte le definizioni, quella che preferiva era luchadora social, una combattente sociale. Sapeva negoziare, ascoltare e unire. Ed era una ribelle senza peli sulla lingua fin da piccola. Berta Cáceres è morta cinque anni fa, assassinata nella sua camera da letto il 2 marzo 2016, meno di un anno dopo aver vinto il più importante premio per i difensori dell’ambiente, il Goldman Prize. In un periodo in cui l’Honduras risultava il luogo più pericoloso al mondo in cui difendere la terra e le risorse naturali.

Era impegnata nella lotta contro la costruzione della diga idroelettrica di Agua Zarga sul fiume Gualcarque. Un ecomostro che avrebbe distrutto la vita del popolo Lenca per cui il fiume è fonte di nutrimento spirituale e fisico. Fornisce pesce da mangiare, acqua da bere per gli animali, piante medicinali e divertimento: mancando l’elettricità, non parliamo di internet, i bambini si ritrovano al fiume per giocare e nuotare. Senza il fiume, non ci sarebbe potuta essere vita a Río Blanco, un insieme di comunità di campesinos sparse su un terreno collinoso e ricoperto di pini nel dipartimento di Intibucá, nell’Honduras sudoccidentale. Opponendosi a quel sistema tossico di ambizione, legami politici, tattiche della prevaricazione e alleanze militari che sosteneva il progetto, Berta avrebbe trovato la morte.

È STATA UCCISA DA SICARI assoldati dalla Desa, la compagnia di costruzione della diga, come ha anche accertato il processo che ha condannato gli esecutori ma ha lasciato evase molte domande sui mandanti. Sulla sua vicenda e sulla sua tragica fine, la giornalista del Guardian Nina Lakhani ha dedicato un appassionato e potente libro di inchiesta che esce in Italia per la casa editrice Capovolte con il titolo Chi ha ucciso Berta Cáceres?. Un’indagine certosina tra i misteri e gli insabbiamenti di un caso che racconta bene la storia di un Paese, l’Honduras, oppresso dai poteri delle grandi aziende, del narcotraffico e dall’ombra degli Stati Uniti.
«L’esercito ha una lista di persone da uccidere, contenente i nomi di sedici difensori dei diritti umani, e il mio è in cima. Io voglio vivere, ci sono tante cose che voglio ancora fare in questo mondo. Prendo precauzioni, ma in fondo in questo Paese, dove l’impunità è totale, sono vulnerabile. Quando vorranno ammazzarmi, lo faranno», raccontò Berta Cáceres a Lakhani nel novembre del 2013.

DOPO IL GOLPE DEL 2009, che aveva rimosso il presidente democraticamente eletto Mel Zelaya, il clima in Honduras si era fatto più violento e si era scatenato uno tsunami di progetti di «sviluppo» devastanti per l’ambiente: il governo ad interim di Roberto Micheletti approvò velocemente una legge che consentiva la privatizzazione delle risorse idriche del Paese. Il successore Pepe Lobo, del Partito Nazionale, cancellò il divieto di progetti commerciali nelle riserve protette. Partì una corsa al controllo dei fiumi e l’élite honduregne utilizzarono il pretesto dell’«energia pulita» per arricchirsi ancora di più. Nacque così il progetto della diga di Acqua Zarga, che per diversi anni trovò l’opposizione di Berta e del Copinh, il Consiglio civico delle organizzazioni popolari e indigene.

«Nessuno si aspettava che il popolo Lenca si sarebbe opposto a questo potente mostro. Eppure noi, persone indigene, resistiamo da oltre 520 anni, sin dall’invasione spagnola. Settanta milioni di persone sono state uccise in tutto il continente per le nostre risorse naturali e questo colonialismo non è finito. Ma noi abbiamo potere, compañeros, ed è per questo che ancora esistiamo». Così, nell’aprile 2013, con indosso la sua abituale tenuta, pantaloni, camicia a quadri e ampio sombrero, in cima a una piccola collinetta erbosa e all’ombra di un’antica quercia, Berta Cáceres arringò una nutrita folla di uomini, donne e bambini preoccupati per l’impatto devastante della mega opera, autorizzata ignorando il requisito legale di una consultazione formale da tenere, in base all’Ilo 169, la convenzione internazionale sui diritti degli indigeni ratificata in Honduras nel 1995.

LE MARCE, LE PROTESTE, le azioni di disobbedienza civile delle popolazioni Lenca, nonché l’inflessibilità di Berta, infastidivano l’intreccio di poteri, pubblici e privati, che speculava svendendo la natura. Per indebolire questa resistenza, furono attivate tecniche di controinsurrezione, una dottrina a lungo usata in tutta l’America latina per dividere e conquistare le comunità che si opponevano all’espansione neoliberista. Tecniche di cui erano interpreti sia il presidente della Desa, David Castillo, che il suo capo della sicurezza, Douglas Bustillo, ex ufficiali dell’esercito dell’Honduras formati dagli Usa. Per il primo, attualmente l’unico sospettato di aver ordinato l’omicidio di Berta, il processo si sta per aprire dopo molteplici rinvii; il secondo è stato, invece, condannato a trent’anni insieme ad altri sei imputati ritenuti a vario titolo colpevoli della morte dell’attivista honduregna. La verità emersa è, però, ancora parziale: quella complicità ai più alti livelli nazionali e internazionali, politico e finanziari, di cui parlano i figli, i movimenti e il pool di avvocati che si occupa del caso, resta tuttora insabbiata. D’altronde, anche la verità parziale era stata una conquista a cui è contribuito l’autrice del libro Chi ha ucciso Berta Caceres?, che nel 2016 firmò sul Guardian un articolo dal titolo «Il nome di Berta Cáceres era su una lista nera dell’esercito dell’Honduras». Il pezzo scatenò una tempesta diplomatica e rese più difficile ignorare la richiesta di giustizia.

CÁCERES È STATA UNA LEADER INDIGENA, una ambientalista e una femminista, una difensora di base dei diritti umani che rifiutava di arrendersi all’ordine mondiale patriarcale neoliberista, una donna che si è battuta contro il razzismo di una società che non riconosceva diritti ai popoli indigeni. È stata molte cose ed è morta troppo giovane, a due giorni dal suo 45esimo compleanno. È la seconda persona assassinata dopo aver vinto il Goldman Prize – il Nobel degli ambientalisti – dall’ideazione del riconoscimento nel 1989. Il nigeriano Ken Saro-Wiwa, che difese i diritti del suo popolo Ogoni dalle multinazionali del petrolio, fu incarcerato, condannato a morte e ucciso dal governo nel 1995, poco dopo l’annuncio della sua vittoria del premio. Nel gennaio 2017 l’agricoltore Tarahumara, Isidro Baldenegro, vincitore del riconoscimento dieci anni prima per aver combattuto il disboscamento illegale nella Sierra Madre in Messico, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco.

L’ESEMPIO DI BERTA CONTINUA A VIVERE. Gli oppositori delle grandi opere come lei sono spesso bollati da politici e investitori come «contrari allo sviluppo». Succede anche in Italia (il Tav, solo per dirne una). Berta non era contraria a una energia più pulita e più economica. Era contraria invece all’imposizione di progetti energetici sui territori indigeni protetti senza un’adeguata consultazione e compensazione per le comunità coinvolte. Questo perché le miniere pulite non esistono e le dighe non sono mai innocue dal punto di vista ambientale. In tutto il mondo le dighe hanno costretto un numero incalcolabile di comunità ad abbandonare stili di vita tradizionali e sostenibili. Chiedeva consultazioni libere, preventive e informate, e ciò implicava avere il diritto di dire di no e porre il veto ai progetti. Ma la democrazia continua a spaventare anche coloro che la vogliono esportare.

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