Trenta milioni di euro valgono molto più di trenta denari. E la proporzione ha senso, perché, a differenza di Giuda, Marcello Dell’Utri il (suo) messia non l’ha mai tradito. Nemmeno quando le cose si sono messe malissimo, quando venne condannato in via definitiva per aver «concorso nelle attività dell’associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa», quando fuggì in Libano, quando fu catturato, quando venne estradato, quando entrò nel carcere di Parma.

Silvio Berlusconi diceva di conoscere Dell’Utri dagli Anni 60 e, in effetti, esistono diverse foto a testimoniare l’esistenza di un’amicizia che affonda le sue radici in un tempo quasi ancestrale. Sembrano persone diverse in quelle immagini: non i padroni di tutto che sarebbero diventati poi, ma due tizi (c’era sempre anche una terza persona: Fedele Confalonieri) con molta ambizione, i pantaloni a zampa e basette discutibili persino per l’epoca. Marcello allenava il Torrescalla, squadretta giovanile milanese sponsorizzata dalla Edilnord di Silvio. L’ala destra, sostiene il di solito ben informato Tiziano Crudeli, era Adriano Galliani. Non si hanno notizie dei risultati, comunque Dell’Utri a un certo punto è stato esonerato perché troppo difensivista.

Questo dettaglio – il difensivismo – Dell’Utri l’ha coltivato per tutta la vita, mettendolo sempre a disposizione della causa del padrone e del suo molto spregiudicato modo di stare al mondo, condurre affari, fare politica. E da molto prima del fatidico 29 giugno del 1993, quando Marcello e Silvio (e Antonio Martino, Gianfranco Ciaurro, Mario Valducci, Antonio Tajani, Giuliano Urbani e Cesare Previti) fondarono «Forza Italia! Associazione per il buon governo». Per esempio, un giorno d’estate del 1973, Dell’Utri portò nella villa di Arcore un signore che, secondo la procura di Palermo, serviva a evitare che i familiari di Berlusconi venissero rapiti, eventualità non così remota in quegli anni, almeno per chi si sapeva avesse abbastanza soldi da poter pagare un bel riscatto. La narrazione ufficiale, ad ogni modo, dice che quel signore fosse in realtà soltanto lo stalliere della villa. Quando venne fuori che costui, Vittorio Mangano all’anagrafe, era «persona pericolosa» in quanto esponente di spicco del clan di Porta Nuova a Palermo, Dell’Utri e Berlusconi dissero di non saperne nulla. È però provato che il 24 ottobre del 1975 Marcello e Vittorio erano insieme al ristorante Le colline pistoiesi di Milano per festeggiare il compleanno del boss catanese Antonino Calderone.

Questo doppio livello di lettura – uno giudiziario e uno, diciamo, berlusconiano – è una costante della vita di Dell’Utri, personaggio che ricorre sin troppo spesso nel labirinto delle inchieste sul Cavaliere, coinvolto in dodici processi (quattro assoluzioni, un proscioglimento, un patteggiamento, una prescrizione, due archiviazioni, due condanne definitive, più la mai del tutto chiarita vicenda della presunta estorsione a Berlusconi in persona) e difeso a spada tratta fino a che ha fatto politica (cioè fino al 2013) e poi pian piano lasciato scivolare nel dimenticatoio mediatico, forse perché la situazione si era compromessa o forse perché lo spegnersi dei riflettori era cosa buona e giusta per tutti. Tutti loro, s’intende. È il doppio livello di lettura, appunto: Dell’Utri uomo di Arcore a Palermo o uomo di Palermo ad Arcore, a seconda del punto di vista su una storia mai raccontata del tutto. La storia, cioè, di come abbia fatto Silvio Berlusconi, già intrattenitore sulle navi da crociera e agente immobiliare, a diventare in brevissimo tempo un ricchissimo.

Quando ha appreso di essere tra i beneficiari dell’eredità di Silvio, Marcello ha fatto sapere di aver pianto. Non tanto «per la cosa materiale», quanto «per il gesto che dimostra la grandezza dell’uomo». Sarà che delle note scorribande – o persecuzione giudiziaria che dir si voglia – Dell’Utri è quello che ha pagato il conto più salato senza fare una piega. Sarà perché davvero sessant’anni di amicizia valgono trenta milioni di euro e pure di più. Sarà perché Berlusconi, parola di Marcello, «per me era come un fratello». Ecco, appunto: uno di famiglia.