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L’eredità di George Wein

L’eredità di George WeinGeorge Wein

Ricordi/Il grande impresario statunitense ha ideato alcuni tra i festival più rilevanti d’oltreoceano, come il New Orleans Jazz & Heritage

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 29 gennaio 2022

«Mi chiesero se avevo intenzione di realizzare un festival come quello di Newport. Io gli risposi ‘No!’… perché New Orleans è qualcosa di veramente speciale. Non esiste un’altra città come New Orleans, dal jazz al blues, al funk… e tutto questo, unito al cibo e alla cultura ci ha fatto creare il più grande festival al mondo!».
Così si rivolgeva George Wein, nell’aprile del 2018, dal palco principale del New Orleans Jazz & Heritage Festival all’oceanico pubblico presente, raccontando della domanda che gli venne posta da un giornalista nel 1972, curioso di avere notizie su cosa ci si dovesse attendere dal neonato Jazz Fest, fondato dall’impresario proveniente da Lynn, Massachusetts. A introdurlo sul palco, poco prima della stella Irma Thomas, fu il direttore della rassegna, quel Quint Davis che Wein scelse assieme ad Allison Miner come suoi competenti e appassionati delegati in città, assegnandogli la gestione della kermesse. Perché Wein a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta era pressoché all’apice della carriera, avendo oramai consolidato il ruolo di organizzatore di eventi negli States ed essendo prossimo a un allargamento oltre i confini nazionali. Non aveva quindi il tempo necessario per dedicarsi a un solo happening culturale ma di certo, la Crescent City aveva un posto particolare nel suo cuore.

UN CAMPIONE
Wein, nato il 3 ottobre 1925 e scomparso nel 2021 a New York è stato un campione autentico della promozione culturale del mondo occidentale, a cui ogni appassionato di musica deve davvero moltissimo. Non è stato il primo a creare il concetto di «festival», ma è grazie a lui che l’idea di un incontro sia ludico che intellettuale destinato primariamente al jazz e successivamente al coinvolgimento di altri aspetti del folklore, è entrata negli usi e costumi degli ultimi settant’anni. Una vita «letteraria» la sua: nasce come pianista jazz e a soli venticinque anni, nel 1950, apre a Boston il jazz club Storyville, il cui nome venne scelto durante una conversazione con l’amico e giornalista Nat Hentoff, dove suonano personaggi come Charlie Parker, Billie Holiday, Gerry Mulligan e Stan Getz, solo per citarne alcuni. Molti di questi protagonisti faranno parte della leggendaria e omonima etichetta discografica Storyville, sempre da lui concepita, mentre nel 1953 apriva un altro club di stampo più classico, il Mahogany Hall, nel piano inferiore del precedente. E a seguito di un incontro con i coniugi e mecenati Elaine e Louis Lorillard, che finanziarono l’idea, il 17 luglio 1954 diede il via al Newport Jazz Festival, realizzando un modello di imprenditoria fino a quel momento quasi inesistente, ad eccezione del vicino e misconosciuto Tanglewood Music Festival a cui si ispirò. Come rammentava egli stesso, creare la prima edizione di Newport fu «un’opportunità per promuovere il jazz su larga scala, facendolo arrivare a persone di tutte le età. Per la prima volta, coloro che non andavano nei club o non potevano entrare perché erano troppo giovani ora potevano vedere e ascoltare i musicisti dal vivo, fuori, in un ambiente disinvolto e rilassato». Fu un enorme successo e il resto, è storia: nel 1959 aprì il Newport Folk Festival e da quel momento in poi replicherà il modello organizzativo in giro per gli Stati Uniti e non solo, come testimoniano tra i tanti l’Ohio Valley Jazz Festival del 1962, il Boston Globe Jazz Festival del 1966, l’Hampton Jazz Festival nel 1968, la Grande Parade du Jazz di Nizza nel 1974, nonché l’utilizzo del nome Newport Jazz Festival a New York, a Madarao in Giappone e in varie località tra Europa e Stati Uniti grazie all’ingresso di una grande azienda col suo brand nel titolo della rassegna.
E mentre nel corso dei decenni Wein veniva insignito di onorificenze e riconoscimenti di ogni genere, tra cui la Legion d’Onore francese, il Premio Frederick Douglass della New York Urban League e il Grammy nel 2015, non dimenticava di portare avanti l’attività come pianista con la sua band Newport All-Stars, né tantomeno di aver sentimento per il Deep South del paese. Coinvolgimento che emerge appieno sia nella biografia Myself Among Others-A Life in Music del 2004, che nel film del 2020 Jimmy Carter: Rock & Roll President, dove la sua intervista ha un peso considerevole, ma ancor più nelle vicende piccole e grandi che lo hanno legato per decenni alla Louisiana e a New Orleans, che divennero l’area geografica con la maggior densità di eventi da lui organizzati.
A mezzo miglio dal French Quarter stabilì la sede della società di produzione, la Festival Productions, Inc, con la quale generò numerosi happening, tra cui il Festival New Orleans, l’Essence Music, il Bayou Country e il Louisiana Superdome Re-Opening Ceremony, che vide U2 e Green Day celebrare la rinascita del 2006 nel post Katrina. Ma le connessioni con la città iniziarono molto tempo prima, quando negli anni Sessanta ben tre tentativi di organizzare il Jazz Fest andarono a vuoto: i politici locali che gli avevano promesso di impegnarsi, retrocedettero dalla loro idea quando scoprirono che la moglie di Wein, la biochimica Joyce Alexander, era un’afroamericana, cosa che avrebbe potuto creare imbarazzo al sindaco di allora; inoltre per lui era imprescindibile avere sullo stesso palco musicisti neri e bianchi, mentre la segregazione di quei giorni permetteva questo solo all’aperto e comunque non insieme ma con band separate e in successione l’una all’altra.

DIRITTI CIVILI
Bisognerà attendere che il Civil Rights Act abbattesse l’egemonia della stagione Jim Crow prima di vedere andare in scena il Jazz Fest nel 1970. Di quella prima edizione di cui facevano parte nomi a dir poco leggendari come Duke Ellington, che ricordiamo essere legatissimo all’impresario al punto da affermare di se stesso di essere «nato al Newport Jazz Festival il 7 luglio 1956» e che presentò il 25 aprile il lavoro commissionatogli da Wein, quella New Orleans Suite, di cui suonò soltanto il tema iniziale Blues for New Orleans e che divenne poi un disco nel 1971. Oltre lui, furono della partita Pete Fountain che aprì la rassegna suonando su un battello, la Preservation Hall Jazz Band, Al Hirt, Clifton Chenier, Fats Domino, The Meters, Snooks Eaglin, la New Orleans Modern Jazz All-Stars con Ellis Marsalis, la Eureka Brass Band e Mahalia Jackson che pur se non in cartellone alla Louisiana Heritage Fair si esibì in una clamorosa versione di Just a Closer Walk with Thee. Wein intuì l’ardore e la maestria con cui Quint Davis e Allison Miner potevano essere della partita. A Miner si deve la nascita dell’archivio del Fest e il Music Heritage Stage, il cuore intellettuale e popolare dove tornare alle tradizioni della città. Inoltre è stata manager di Prof. Longhair, Wild Magnolias, Rebirth Brass Band ed è stata fondamentale per lanciare la radio WWOZ. E certo se la Crescent City di oggi ha costruito e consolidato un carattere e una storia architettonica, sociale e culturale legata alla propria identità musicale, molto lo deve a Wein, Miner e Davis, visionari capaci di immaginare oltre l’ordinario. E mentre l’attuale rassegna come l’intera città si dibatte ancora coi problemi generati dalla pandemia e del recente passaggio dell’uragano Ida, il The George and Joyce Wein Jazz & Heritage Center aperto nel 2014 come centro comunitario e artistico nel quartiere di Tremé, continua il suo lavoro quotidiano di insegnamento ai giovani allievi e di supporto agli artisti di mestiere.

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