Cultura

L’eredità del patto con il diavolo nel segno del gotico catalano

Una raffigurazione medievale del «patto con il diavolo»Una raffigurazione medievale del «patto con il diavolo»

Narrativa «Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre» (Mondadori). Esce oggi nel nostro Paese l’opera della scrittrice Irene Solà. Il folclore si innesta in una saga familiare e in un contesto culturale e geografico

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 27 agosto 2024

Due donne in una stanza buia: Bernardeta, che respira a fatica nel suo letto, e Margarida, seduta accanto a lei in silenzio, che aspetta il suo ultimo respiro. Separate dal tempo e dalla morte (la donna seduta è un fantasma, quella distesa lo sarà presto), sono unite da un legame di sangue: Margarida è infatti la defunta madre della vecchissima Bernardeta, nata senza ciglia e spietata veggente, che ha amato soltanto il Diavolo e ne è stata abbandonata. Intorno a loro c’è una casa enorme e antica, dove un festoso clan di spettri femminili prepara un banchetto per accogliere la nuova arrivata. E intorno alla casa, ecco la sierra di Guilleries, un territorio di boschi e montagne che per secoli ha offerto rifugio a lupi, streghe, banditi, fuggiaschi e al demonio in persona (e che a qualcuno potrà forse ricordare il Casentino descritto da Emma Perodi in quel singolare esempio di fantastico «nero» che è Le novelle della nonna).

COSÌ INIZIA Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre (Mondadori, pp. 156, euro 18,50, traduzione dal catalano di Amaranta Sbardella), terzo romanzo di Irene Solà che, nata nel 1990 a Malla, un paesino non lontano da Vic, a partire dai diciotto anni è vissuta e ha studiato arte a Londra, in Islanda, negli Stati Uniti e in altri luoghi, ma non ha mai smesso di tornare alla sua terra, di ripensarla, re-immaginarla e raccontarla.

Dopo il successo e le innumerevoli traduzioni di Io canto e la montagna balla (Blackie edizioni, 2020), romanzo con cui si è fatta conoscere in Spagna e all’estero, Solà è riuscita nell’impresa di mantenere un’armoniosa continuità con l’opera precedente (di nuovo il mondo rurale, la storia del territorio e il suo folclore, l’attenzione per la natura e gli animali, il ruolo di primo piano assegnato ai personaggi femminili), ma senza ripetersi, approfondendo ed elaborando i temi che le interessano fino a travasarli in un testo ancora più ricco, audace e sofisticato, complesso e anche fosco, quasi un esempio di «gotico catalano» contemporaneo, non privo di allegria.

L’agonia di Bernardeta dura un solo giorno, scandito dai sei capitoli, che però contiene l’intera e polifonica storia di un famiglia di sole donne (gli uomini sono sempre di passaggio), a cominciare da quando Joana, la matriarca, evoca il diavolo dopo aver chiesto invano a Dio, alla Vergine e ai santi un marito «intero», che le dia casa e figli. E il diavolo, che si presenta in forma di toro nerissimo, la esaudisce, perché il giorno dopo Bernardì Clavell, cacciatore di lupi, chiede la sua mano. Un uomo buono, ma brutto e incompleto, il Clavell: gli manca, infatti, il mignolo di un piede, il che consente a Juana di rompere il patto diabolico. È col filo di questa fiaba attinta al folclore catalano che Solà avvolge il suo gomitolo di storie attorno alla sapiente vendetta del demonio: a tutti i discendenti di Joana, infatti, mancherà sempre qualcosa.

Chi nasce con tre quarti di cuore come Margarida, chi senza lingua come Blanca, chi senza un’orecchio o senza la capacità di provare dolore fisico… Ciascuna delle donne Clavell ha un diverso rapporto con l’amore, il sesso, la maternità, la violenza, la memoria, e un diverso sguardo sulla propria storia e su quella della famiglia: donne fuori da ogni canone, imperfette, incomplete, che sfidano il mondo, sopravvivendo a violenze divine e umane, partorendo figli non sempre amati e riuscendo in qualche modo a essere padrone del proprio destino. Ora sono fantasmi che cucinano e mangiano intingoli, che ridono e ascoltano storie, che sanno ancora amare e che, invisibili ai vivi, possiedono ancora una singolare carnalità.

QUASI OSSESSIONATA dalla presenza e dall’idea del corpo, tanto umano che non umano, Solà ne racconta l’erotismo, le sofferenze, i traumi, descrive con minuzia accoppiamenti, torture, carezze, esecuzioni feroci, in pagine «sensoriali», traboccanti di odori, suoni, sensazioni tattili. E anche la casa appare come un corpo protettore, quasi materno, dal quale solo gli uomini (e nel romanzo ne compaiono molti) si allontano per vivere truci avventure, come l’affascinante bandolero Francesco Llobera, sposo di Margarida, e i soldati del re, o i fascisti e i repubblicani in lotta. Ma gli uomini non tornano mai, muoiono lontano, e le loro voci non sono centrali.

Mentre l’intreccio si dipana lungo i secoli, in un indefinito disordine cronologico, affiora anche il nostro presente, rappresentato dalle discendenti di Bernardeta e dai loro cellulari sempre accesi, che non colgono le presenze delle vere signore della casa, né le storie raccontate da Joana, fedele alla consuetudine dell’oralità. Solà, ancor più che nel romanzo precedente, di questa tradizione narrativa propone un uso contemporaneo, innestando il folclore all’interno di una saga familiare, di un contesto geografico e culturale e della storia catalana: un felice esperimento creativo sostenuto dalla documentazione di cui dà conto l’appendice finale.

OLTRE A QUESTO FITTO DIALOGO con il folclore e la storia, però, Solà ne mantiene aperto anche un altro, quello con la letteratura che ama, e in primo luogo con Victor Català (pseudonimo di Caterina Albert), straordinaria scrittrice di cui in Italia si conosce soltanto Solitudine (Elliot, 2015), ambientato nella montagna catalana più aspra e primitiva: un’intertestualità che arricchisce ulteriormente il romanzo composto di strati numerosi e diversi, in cui eventi e personaggi si fondono e si confondono, evocati da un narratore simile al vento «parlante» di La mort i la primavera, grande romanzo fantastico di Mercé Rodoreda. Una voce narrante che passa liberamente da un’epoca all’altra all’interno di una stessa pagina o di uno stesso paragrafo, incarnandosi in una prosa mutevole, tempestosa, a tratti barocca, che da cruda ed esplicita diventa lirica e si inoltra nei territori della visione e del sogno.

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