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L’era digitale del canto gregoriano

L’era digitale del canto gregoriano

Intervista Il pianista americano John Anderson parla della sua monumentale incisione

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 9 maggio 2020

Fenomeno che si inoltra al di là della sfera meramente musicale, il canto gregoriano gode di una fruibilità che può prescindere dal possesso di strumenti analitici troppo spinti sul versante tecnico e filologico, lasciando spazio alla curiosità e alla fascinazione istintive. Secondo la definizione che ne dava Massimo Mila nella sua (tuttora) fondamentale Breve storia della musica, per canto gregoriano dobbiamo intendere «tutto il complesso della musica fiorita durante il Medioevo in seno alla Chiesa». Un repertorio familiare a pochi altri che gli storici della musica e, a volte, da cultori dell’aspetto religioso, solo indirettamente attratti dalla dimensione artistica. A loro si aggiungono gli ascoltatori onnivori e curiosi, potenzialmente coinvolti dall’ampliarsi dei canali della distribuzione musicale.

Anche il canto gregoriano, apparentemente lontanissimo da qualsiasi logica di mercato, alla fine del secolo scorso, è stato messo al centro di diversi progetti discografici (a partire da quello, fortunatissimo, con i monaci spagnoli di Burgos) le cui finalità commerciali venivano spesso più o meno dissimulate da una facciata di misticismo radical chic.

Per quanto utilizzato molto spesso come semplice sfondo sonoro (musique d’ameublement, avrebbe detto Satie), il canto gregoriano è in grado di regalare, all’ascoltatore moderno, suggestioni indiscutibili: il suono misterioso della lingua latina, il fascino del rito ancestrale, il rigore elementare dell’andamento monodico, il riverbero ricavato dagli ambienti di registrazione (o sapientemente aggiunto in postproduzione) rendono questo repertorio, nella sua sublime inattualità, un modello di fascino arcano. Al gregoriano come fonte di ispirazione hanno guardato anche artisti di estrazione extraclassica nell’ambito di diversi esperimenti di contaminazione, il più fortunato dei quali resta «Officium», disco importante della Ecm, che accostò, nel 1993, il saxofono cool di Jan Garbarek ai canti liturgici intonati dall’Hilliard Ensemble: il successo di vendite fu clamoroso. La linearità elementare del canto gregoriano, caratterizzata dalla coincidenza puntuale di testo-preghiera e melodia, deriva dalla sua stessa funzione liturgica e ha come obiettivo essenziale il coinvolgimento dell’assemblea dei fedeli. Il testo, dunque, e non il suono inteso in termini fisici, conferisce ritmo e valore espressivo al canto. Alle antifone e ai responsori, moduli strutturali primigeni del gregoriano, si sarebbero aggiunti col tempo inni e sequenze, in un processo di evoluzione della forma tenuto ostinatamente all’interno della dimensione monodica, evitando il ricorso a qualsiasi tipo di armonizzazione.

Il percorso progressivo di ampliamento del materiale musicale, però, coincide, sul piano dello stile, con quello di appropriazione di una lingua nuova, necessariamente adeguata ai tempi, e di una espressività non più fondata rigidamente sulla quantità delle singole sillabe, come avveniva nel latino classico, ma sull’accento della parola, secondo un processo evolutivo che trascende la dimensione puramente musicale.

Con il rispetto dovuto, dunque, a un capitolo decisivo di storia della cultura occidentale, John Anderson – pianista statunitense originario del Kansas, che nel 2012 ha fondato una casa discografica, la Odradek, ideologicamente diversa da quasi tutte le etichette in commercio – ha intrapreso, nel 2019, un progetto di ricerca e divulgazione ambizioso e monumentale.

Cosa l’ha spinta a questo strano e intenso feeling con la musica medievale, fino a farle raggiungere l’abbazia di Notre-Dame de Fidélité, a Jouques, nel sud della Francia, per registrarne integralmente i canti corali?
Ho ereditato la passione per il gregoriano dai miei genitori, da mio padre soprattutto, che ha viaggiato a lungo in Europa e molto in Italia, visitando gli antichi monasteri. Sono cresciuto ascoltando le sue storie, sempre più affascinato dall’eco dei canti religiosi e dall’immagine dei luoghi favolosi che mi descriveva. Nell’Abbazia di Fontgombault, nella Loira, mio padre ha trascorso un anno intero, condividendo i tempi e i ritmi dei monaci benedettini, imparandone i canti, i testi, lo stile. Fontgombault è un luogo dell’anima. Ed è lì che si sono sposati i miei genitori.

Ogni giorno, dalle cinque del mattino alle otto di sera, lei ha registrato i canti delle monache benedettine: il progetto è giunto a un terzo del suo cammino, circa 2000 ore di musica saranno disponibili dal 31 maggio (sul sito www.neumz.com) e, alla fine del 2022, il materiale raccolto sarà tanto corposo da poter riempire, in teoria, qualcosa come settemila CD. «In teoria», appunto, perché le modalità di fruizione saranno altre. Come si è accesa la scintilla del progetto?
Al monastero di Jouques sono arrivato seguendo le tracce di una mia zia, suora benedettina, che avevo perso di vista completamente per diciotto anni all’indomani del matrimonio dei miei genitori. È stata lei ad accompagnarmi in quei luoghi e a svelarmi i tesori musicali del gregoriano, attraverso l’ascolto diretto. Non fu solo la suggestione antica del canto a colpirmi. Da subito, cominciai anche a rendermi conto di come quel modo di approfondire e sviluppare il rapporto tra testo, melodia e ritmo vivesse, di fatto, all’origine di tutta la musica moderna occidentale. Solo in seguito sarebbe stata adottata la notazione che conosciamo e qualcuno avrebbe inventato il metronomo… Ma senza il nucleo ispiratore rappresentato dal gregoriano, non avremmo avuto, forse, tanti capolavori classici.

Dunque, le venne voglia di tuffarsi in quel paesaggio musicale remoto…Ormai, c’ero dentro fino al collo, e non ne sono più uscito. Non perciò mi reputo un esperto: non sono uno storico né un filologo, resto fondamentalmente un appassionato. Ho studiato Musica a Oxford, ma quello che sto imparando attraverso l’esperienza di questi anni, con l’ascolto quotidiano, mi sorprende e mi entusiasma ancora. Mi sento il primo utente di questo progetto gregoriano: un privilegiato.

Una volta giunto a Jouques, il cerchio si è chiuso?
No, non è stato così semplice. Dopo il primo periodo in Francia, il percorso spirituale di mia zia è proseguito nel Benin. Grazie a lei ho capito che se, in Europa, per un monastero è relativamente facile autosostenersi, grazie alla vendita di prodotti e alla presenza dei turisti, in Africa la stessa cosa diventa dolorosamente complicata. Sforzandomi di trovare un modo per aiutarla, ho immaginato che forse le suore avrebbero potuto provare a vendere qualcosa a una platea assai più vasta, attraverso la rete… Non più marmellate o tisane, ma musica. Per convincere le suore francesi di Notre-Dame de Fidélité ad accettare che tutti i loro canti venissero registrati e condivisi con il mondo esterno, ci ho messo sette anni. Inizialmente avevano temuto di subire una sorta di invasione indiscreta nel proprio mondo spirituale, un’eccezione notevole all’alternarsi di «ora» e «labora». Poi hanno capito che si sarebbe trattato di regalare una gioia, fino a quel momento tenuta celata, a un numero enorme di persone, contribuendo oltre tutto al benessere delle consorelle nel Benin.

La squadra con cui ha lavorato è la stessa in forza nella sua etichetta discografica, Odradek: come mai questo nome kafkiano?
L’idea è stata di mia moglie, Pina Napolitano, pianista che ha inciso per la Odradek pezzi di Schönberg, Brahms, Webern, Berg, e che mi ha suggerito di alludere a un’entità non tangibile, a un qualcosa di immateriale, un po’ misterioso. Ci sembrava fosse un nome adatto a una etichetta estranea alle logiche standard del mercato: condivide le entrate con gli artisti e, una volta recuperate le spese di produzione, lascia a loro ogni altro utile. Siamo una compagnia no-profit, e scegliamo insieme agli artisti la musica su cui puntare, come in un collettivo.

Quando registrate i canti, è «buona la prima», in genere, o c’è da compiere un lavoro importante di postproduzione?
Ogni giorno riceviamo circa venticinque gigabyte di musica, e abbiamo diverse piste di registrazione, per cui il materiale va sempre missato e riequilibrato sul piano sonoro. Il prodotto di partenza, in generale, è già buono: le suore sono molto brave, ma evidentemente non si tratta di cantanti professioniste; e questo, secondo me, non fa che rafforzare la suggestione immediata degli esiti. Ho ascoltato, naturalmente, molte registrazioni effettuate in studio, anche con cori famosi: la cura dell’intonazione, s’intende, in quei casi è straordinaria, ma il tutto rischia di suonare un po’ impersonale.

La novità di questo vostro progetto triennale sta nella mole di materiale reso disponibile o nei modi previsti per ascoltarla? 
In entrambi, direi. Da un lato, il progetto rappresenta un’occasione quasi unica per apprezzare, in maniera integrale, un corpus d’opera tanto ingente. Dall’altro, è abbastanza innovativo anche il tipo di fruizione proposta: la musica, infatti, si ascolta mentre scorrono il testo (originale e tradotto in più lingue) e lo spartito (in notazione franconiana): è una modalità di consumo interattiva, mai presa in considerazione prima per questo genere di repertorio. Inizialmente l’ascolto è gratuito, poi verrà attivata a pagamento la sola funzione on demand, mentre resterà libera la fruizione in modalità radio. I due terzi degli introiti saranno devoluti al monastero del Benin.

Avete un identikit di massima del pubblico che sta seguendo, in questa prima fase, il vostro progetto web?
Sì, per ora è un pubblico abbastanza anziano, ma via via che comincerà a circolare in rete l’iniziativa , mi aspetto che la possibilità di ascolto interattivo, insieme al fascino in parte nascosto del gregoriano finiranno col sedurre anche una platea più giovane.

In questa particolare contingenza, il messaggio spirituale proveniente dai monasteri risuona inevitabilmente più forte…
Grazie alla disponibilità preziosa delle suore benedettine, abbiamo aperto una finestra su un mondo che non assomiglia a quello nostro di tutti i giorni ma che merita, proprio per questo, di essere conosciuto. Mi auguro che ognuno si sforzi di trovare, in questo momento, la concentrazione giusta e gli strumenti per apprezzare una musica che ha il potere raro di riempire il tempo e di ridurre le distanze.

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