«La prima volta che ho visto la Stele di Rosetta, era più alta di me. Collocata su piedistallo, intrappolata in una perfetta teca di vetro e delicatamente illuminata dal tenue bagliore dei faretti, il suo bordo superiore spezzato bucava il vuoto soprastante come fosse la cima dell’Everest. Avevo otto anni ed era la mia prima gita al British Museum…». A raccontare quest’esperienza «iniziatica» è lo storico dell’antichità Michael Scott (non certo l’unico studioso a ricondurre l’innamoramento per l’archeologia a un momento preciso della propria infanzia) nel saggio Il punto dove scavare La storia dell’archeologia in otto scoperte straordinarie (Bollati Boringhieri «Saggi. Storia», pp. 267, euro 25,00, traduzione di Francesca Pe’). Il titolo del libro allude – nella versione originale ancor più esplicitamente – a una celebre frase del professor Henry Jones jr nel film cult di Steven Spielberg Indiana Jones e l’ultima crociata (1989).

Fin dall’introduzione, l’autore tiene tuttavia a precisare che «ci sono tanti aspetti di Indiana Jones difficili da tollerare» e che «per molti versi Indiana Jones è l’antitesi di quello che significa lavorare nel campo dell’archeologia, anzi, della vita accademica in generale!». Sempre nel preambolo, Scott fa riferimento alla figura di Indiana Jones e al suo mantra «dovrebbe stare in un museo», relativo a qualsiasi oggetto rinvenuto negli scavi, per sottolineare che, sebbene il personaggio hollywoodiano venga presentato come un eroe che vuole impedire agli avversari di impossessarsi dei reperti per guadagno personale, egli riflette al contrario la «smania» colonialista dell’appropriazione brutale dei manufatti. Un tema, quest’ultimo, al quale il docente di Warwick dimostra di essere sensibile quando, alla fine del primo capitolo – dedicato alla scoperta della Stele di Rosetta – si chiede se nell’odierna Rashid (dove nel 1799 l’epigrafe venne riportata alla luce dall’ufficiale francese Bouchard mentre, con i suoi soldati, difendeva una fortezza diroccata) un bambino di otto anni abbia mai guardato con la stessa profonda meraviglia che ebbe la fortuna di provare lui la copia in vetroresina della lastra di granodiorite datata al II secolo a.C. Pur ammettendo i «meriti» della campagna napoleonica in Egitto per la conoscenza della civiltà dei Faraoni, Scott condanna le razzie compiute nel paese del Nilo e ricorda i numerosi appelli che reclamano il ritorno in patria dell’iscrizione trilingue che nel 1822 favorì la decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion.

Ma questo non è l’unico passaggio del libro in cui emerge la questione delle restituzioni. L’autore affronta l’argomento anche nel capitolo in cui descrive le avventurose esplorazioni del Perù guidate da Hiram Bingham III (1857-1956). Nato alle Hawaii, quest’ultimo svolse un dottorato in Studi sudamericani ad Harvard, dove ritrovò le carte di Simón Bolívar. Sulle orme del «liberatore», Bingham ripercorse gli oltre mille chilometri della marcia del generale, paragonata al passaggio delle Alpi di Annibale, da Caracas a Bogotá. Impresa che nel 1907 gli valse una cattedra di storia del Sudamerica a Yale. Durante la spedizione Bingham visitò per la prima volta un sito legato all’impero inca, che aveva dominato ampie regioni del continente sudamericano dal XIV secolo fino alla conquista spagnola. Attraverso una narrazione densa, che – malgrado la profusione di dettagli – riesce a sostenere un ritmo accattivante (il testo non è altrettanto scorrevole nel capitolo, pur interessantissimo, sulle ricerche dell’ungherese Marc Aurel Stein lungo la Via della Seta), Scott trasporta il lettore tra vette impervie, fiumi da guadare con l’ausilio di tronchi e giungle «proibite» che nascondono rovine. D’altronde fu proprio la figura di Bingham a ispirare il personaggio di Indiana Jones… Dopo aver individuato gli insediamenti neo-inca di Vitcos e Vilcabamba, colui che preferì definirsi un esploratore piuttosto che un archeologo, rivelò al mondo anche l’esistenza di Machu Picchu (le cui vestigia erano però note agli indigeni), che identificò erroneamente con Tampu Tocco, la roccaforte da cui, secondo il mito, erano emersi i sovrani inca creati dal dio Viracocha. L’1 dicembre 1912, alla fine di due anni di fruttuosi scavi, Bingham salpò da Lima con cento casse di reperti provenienti da Machu Picchu e dirette a Yale. Solo nel 2011, dopo aspre contese, la collezione conservata al Peabody Museum è tornata da dove era ingiustamente partita.

La riflessione sull’etica dell’archeologia è, oltre alla scelta perlopiù inconsueta delle scoperte solitamente narrate nel quadro di un filone editoriale di successo inaugurato nel 1949 con Civiltà sepolte di C. W. Ceram, il maggior pregio del volume di Scott. Nel testo non manca l’attenzione ai progressi scientifici e tecnologici della disciplina, come nel racconto dello scavo del relitto di Uluburun (Età del Bronzo), che tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso vide la collaborazione tra archeologi e pescatori di spugne della Turchia.
Un altro tema toccato in modo particolarmente apprezzabile riguarda il rapporto tra archeologia e comunità. Il difficile equilibrio tra acquisizioni scientifiche e rivendicazioni identitarie, sensazionalismo finalizzato allo sviluppo turistico e necessità della ricerca, viene analizzato nel capitolo «Ritorno dai ghiacci», che grazie alla collaborazione di Natalia Polosmak dell’Accademia russa delle Scienze, segue le tracce degli archeologi nei kurgan «congelati» dei monti dell’Altaj, all’estrema frontiera tra Russia, Cina, Mongolia e Kazakistan. La scoperta della mummia nota come «principessa dell’Altaj / Ocy-Bala», avvenuta nel 1993 sull’altopiano di Ukok, rispolvera controversie mai sopite (è giusto turbare il sonno dei defunti, seppur appartenenti a epoche lontane?) e suscita domande più che mai attuali: i reperti, compresi i resti umani, devono essere conservati in spazi idonei al loro studio nel tempo, o nei luoghi che la collettività considera, secondo i propri valori, i più opportuni?