La protagonista di La doppia vita di Madeleine Collins, interpretata da Virginie Efira, sarebbe piaciuta a Alfred Hitchcock. Non solo perché bionda, ma per la sua ambiguità quasi patologica. Avrebbe potuto essere La donna che visse due volte oppure «La donna che visse due vite». Il personaggio infatti è duplice, la sua è una doppia vita. Con la scusa plausibile di un lavoro di traduttrice che la porta spesso in giro, è sostanzialmente bigama. In Francia, suo marito è Melvil, musicista, benestante, padre dei suoi due figli, uno adolescente con i tipici problemi di quell’età, l’altro più piccino. In Svizzera invece è compagna di Abdel economicamente fragile, madre di Ninon una bimbetta che rivendica coccole e attenzioni. La donna però, dietro l’apparente disponibilità, è come una saponetta pronta a scivolare via. Purtroppo per lei quel che scivola via è la sua vita che un po’ alla volta perde pezzi, si complica, si sgretola di fronte ad episodi banali. Sempre più complicato gestire tutto, in particolare nell’epoca dell’invadenza del cellulare. La bimba Ninon le dice «quando sei negli altri paesi sei lo stesso la mia mamma?». Una frase banale che nel contesto del film assume diverse sfumature e significati.

COSÌ COME quando Abdel si rivolge a lei dicendo «quando non ci sei io vivo un’altra vita, tutto solo». Il cinema, e la vita, ci hanno raccontato diversi uomini capaci di gestire doppie famiglie, finora però non si era ancora vista la versione femminile, più complessa, a maggior ragione quando entrano in ballo i figli. E qui forse sta il merito maggiore di Antoine Barraud, capace di costruire il suo racconto, presentato alle Giornate degli Autori e ora nelle sale, facendolo procedere su un crinale scivoloso, tutto potrebbe precipitare da un momento all’altro, non solo la costruzione della protagonista, ma il film stesso che deve sempre tenere salda e viva l’attenzione e l’emozione senza cadere in errori. E buona parte del merito va condiviso con Virginie Efira, disinvolta dissimulatrice ma anche prigioniera di se stessa in una duplice dimensione che diventa sempre più insostenibile. C’è tenerezza nei confronti della piccola, c’è comprensione per il figlio più grandicello c’è il tentativo di confrontarsi con il primogenito, poi ci sono i due uomini. Uno si sente sempre più abbandonato al ruolo di mammo orfano, anche l’altro vorrebbe una moglie più presente rispetto alla giramondo che lui crede lei sia.

IN MEZZO a tutto questo c’è lei che deve gestire un paio di famiglie e un lavoro impegnativo, che richiede concentrazione. Una figura femminile forse anche non esente da colpe, ma costruita con grande comprensione e affetto, seguita come se fosse un thriller esistenziale dove la casualità potrebbe giocare scherzi imponderabili, lei invece cerca di rispondere, colpo su colpo a quel che succede, ora proponendosi con uno chignon hitchcockiano, ora sciogliendo i lunghi capelli biondi. In cerca di un equilibrio sempre più difficile, per cui tocca cercare soluzioni adeguate di volta in volta. Sperando che siano adeguate.