Cultura

L’equilibrio incerto delle radici ritrovate

Intervista Parla l’autrice di «Veniva da Mariupol» (L’orma edizione), una sorta di memoir nel quale la scrittrice racconta di come, a partire dalla scoperta di un forum online russo-tedesco, abbia saputo ricostruire solo pochi anni fa la vera storia dei suoi genitori insieme a quelle di parenti, zie e zii, nonni e cugini, fino a recuperare la trama di una narrazione collettiva che gulag e lager avevano cercato di cancellare. Quella di un mondo, la società di Mariupol tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni dello scorso secolo, dove convivevano cristiani ed ebrei, ucraini, russi, tedeschi, greci e italiani. L’autrice è nata in Germania nel 1945 da genitori russi deportati come lavoratori coatti dai nazisti

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 19 gennaio 2019

Natascha Wodin è nata in Baviera nel 1945 da genitori ucraini deportati come forza lavoro dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e ha trascorso l’infanzia in un campo per sfollati. Nei suoi romanzi non ha mai smesso di indagare questa sorta di identità sospesa e le poche tracce conosciute di una storia famigliare segnata dalle tragedie del Novecento: prima la repressione staliniana che colpì i suoi parenti, una famiglia di origine greca e di ascendenza aristocratica del Mar d’Azov, che annoverava però diversi sostenitori della rivoluzione del 1917, quindi l’avvento del Terzo Reich. La sua opera, oltre una decina di titoli pubblicati fino ad ora in Germania che le sono valsi prestigiosi riconoscimenti, ha saputo inoltre dare voce alle vicende, spesso ignorate, dei cosiddetti «Ostarbeiter», i deportati dai territori occupati dell’Europa centro-orientale costretti ai lavori forzati dai nazisti che gli storici, in assenza di dati certi, stimano in un numero compreso tra i 3 e i 5 milioni.

Nel nostro paese, dopo Avrò vissuto un giorno (Einaudi, 1995), dedicato al ricordo della madre, morta suicida negli anni Cinquanta, di Natascha Wodin L’orma editore ha proposto recentemente Veniva da Mariupol (traduzione di Marco Federici Solari e Anna Ruchat, pp. 389, euro 21), Premio della Fiera di Lipsia 2017, una sorta di memoir nel quale la scrittrice racconta di come, a partire dalla scoperta di un forum online russo-tedesco, abbia saputo ricostruire solo pochi anni fa la vera storia dei suoi genitori insieme a quelle di parenti, zie e zii, nonni e cugini, fino a recuperare la trama di una narrazione collettiva che gulag e lager avevano cercato di cancellare. Quella di un mondo, la società di Mariupol tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni dello scorso secolo, dove convivevano cristiani ed ebrei, ucraini, russi, tedeschi, greci e italiani.

«Per lungo tempo mi sentivo a casa in un universo impreciso». Lei spiega come a causa del trauma della deportazione i suoi genitori si fossero chiusi nel silenzio e non le avessero mai parlato delle vostre radici famigliari. Alla fine di questo libro ha trovato in qualche modo una «casa»?
Quando si hanno ormai settant’anni, l’età che avevo io quando ho scoperto la storia della mia famiglia, è troppo tardi per trovare una nuova casa. Però, venendo finalmente a conoscenza di quei fatti, potendo dare un nome a cose e persone rimaste così a lungo avvolte nell’oblio e definendo meglio i contorni delle mie radici, posso dire di sentirmi più sicura, come se questa scoperta mi avesse rafforzato. Se poi devo pensare ad una «heimat», nonostante tutto per me è la Germania, dove sono nata e cresciuta.

Eppure, questo libro intreccia la scoperta di una trama famigliare al racconto della sua infanzia, quella di una bambina figlia di deportati russi nella Germania dell’immediato dopoguerra che cresce circondata dall’ostilità e dai pregiudizi. Quanto è stata dura?
È difficile far capire fino in fondo cosa significasse essere russi tra i tedeschi in quel periodo, quale clima di odio e sospetto circondasse tutti noi, anche i più piccoli. Eravamo considerati come il nemico di un’intera società, i barbari che minacciavano l’esistenza stessa del paese. Sui giornali popolari i bolscevichi, e per estensione tutti i russi, erano rappresentati come creature mostruose e selvagge. A scuola ci insegnavano che erano stati i russi ad invadere la Germania, e non viceversa. Avevamo provocato morte e distruzione nel luogo in cui adesso vivevamo e per questo dovevamo sentirci colpevoli. E riuscivano davvero a farci sentire tali. Tutto questo senza contare le botte, le aggressioni, le violenze di ogni genere che dovevamo subire. Ricordo che una bambina mia amica fu spinta nel fiume da alcuni coetanei tedeschi e annegò, ma i responsabili non furono puniti. E le cose andarono avanti così per molto tempo. Credo che solo negli anni Sessanta il clima sia davvero cambiato. Nel frattempo io mi ero trasferita dalla piccola località della Baviera in cui sono cresciuta, in un cosiddetto «campo di accoglienza», alla metropoli di Monaco, dove era più facile confondersi tra la gente, passare inosservata. E perfino il mio nome, Natasha, che durante l’infanzia era stato una sorta di «marchio d’infamia» che mi identificava subito come una «nemica», aveva assunto un altro carattere, non più sospetto, bensì quasi esotico.

A proposito del sistema del lavoro forzato organizzato dai nazisti, lei descrive una Germania che assomiglia ad «un unico enorme lager», dove sorgevano oltre 42 mila campi di lavoro. Dalle piccole fattorie agricole fino ai giganteschi impianti industriali destinati a sostenere lo sforzo bellico del Reich. La memoria di queste vicende è però emersa molto lentamente e ancora oggi non sembra essere stata assunta fino in fondo dai tedeschi. Quali i motivi?
In quegli anni non c’era azienda, né fattoria né casa privata nella quale non si facesse ricorso ad almeno un deportato o una deportata utilizzati come lavoratori coatti. Dopo un lungo silenzio, dell’Olocausto si è cominciato per fortuna a parlare, ma quest’altra parte della storia della deportazione rimane ancora poco nota ai più. Credo che in Germania le cose siano andate così sia perché la distribuzione dei deportati era stata talmente capillare da evidenziare la complicità e un tornaconto diffusi tra la popolazione – nessuno poteva dire in seguito «io non sapevo» -, sia perché, specie le aziende più grandi, hanno temuto praticamente fino ad oggi di dover versare degli indennizzi a centinaia di migliaia se non a milioni di sopravvissuti. Si deve tener conto del fatto che le grandi industrie tedesche hanno cominciato a costruire le proprie fortune del dopoguerra proprio durante il Terzo Reich grazie a quel lavoro schiavistico. C’è però anche un altro aspetto della vicenda che ha contribuito ad un così lungo silenzio. Vale a dire che perlomeno durante l’era di Stalin, in Russia si celebrava costantemente la vittoria in quella che veniva chiamata «la grande guerra patriottica», si ricordava il sacrificio di milioni di combattenti e delle vittime del fascismo, ma si negava ogni riconoscimento a chi era sopravvissuto alla deportazione: i lavoratori coatti erano trattati alla stregua di collaborazionisti cui si negava alcun sostegno e che anzi rischiavano la galera o la perdita di beni e lavoro. Perciò, almeno nell’Urss, per molti anni nessuno ha avuto davvero voglia di rivangare quel drammatico passato. Il ricordo di quanto accaduto era custodito in seno alle famiglie, ma non era diventato in alcun modo memoria pubblica. Perché questo accada, dopo la fine della guerra, ci vorranno ancora diversi decenni.

Tentando di ricostruire la storia della sua famiglia, lei non smette, pagina dopo pagina, di misurarsi con due grandi tragedie del Novecento: la repressione staliniana e la deportazione nazista. Al termine di questo viaggio, quale sguardo rivolge alla storia europea?
In realtà io ho raccontato soltanto la storia della mia famiglia e il modo in cui tutte queste vicende ne hanno segnato il destino. Il Novecento è stato un secolo di guerre, deportazioni, massacri. Dobbiamo continuare a sforzarci di raccontare quanto è accaduto e a fare luce su ogni aspetto del passato, specie i meno noti. Ma credo che la vera domanda che ci dobbiamo porre oggi riguardi il presente e il futuro. Vale a dire se il XXI secolo è poi così differente da quanto ci siamo lasciati alle spalle. Certo si combatte con altre armi e in altre forme, ma temo che se guardiamo bene, senza omissioni o censure, si possa scorgere una qualche forma di inquietante continuità.

In «Veniva da Mariupol» si legge che «sono i membri ritrovati della mia famiglia che stanno scrivendo questo libro». Quale il processo narrativo che dalla raccolta di materiali e storie diverse ha condotto alla stesura del libro, alla definizione di personaggi, caratteri, profili?
Dapprima ho trascritto a mano tutte le informazioni di cui ero entrata in possesso come fossero dei singoli post, fino a comporre delle pile di fogli. Quindi ho rielaborato l’intero materiale dandogli forma e lingua e costruendo i singoli personaggi a partire da quanto avevo raccolto. Così, mentre mi immergevo in questa messe sterminata di notizie ho iniziato anche ad immaginare il carattere e la personalità di queste figure di cui stavo apprendendo le storie e le scelte. In gran parte si trattava di persone che stavo incontrando per la prima volta. Alla fine del percorso avevo creato delle figure che erano ad un tempo i miei avi ritrovati e dei personaggi da romanzo. Stavo ridando vita ad un mondo perduto.

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