L’Epistola a Cangrande e lo statuto del poema
Classici italiani La nuova edizione dell’Epistola a Cangrande, a cura di Luca Azzetta per Antenore, ribadisce le ragioni per considerare autentico il testo e aggiunge una riflessione sulla strategia «auto-esegetica» di Dante
Classici italiani La nuova edizione dell’Epistola a Cangrande, a cura di Luca Azzetta per Antenore, ribadisce le ragioni per considerare autentico il testo e aggiunge una riflessione sulla strategia «auto-esegetica» di Dante
Nel 1992 la prestigiosa Princenton University Press dava alle stampe un volume dal titolo programmatico: The Undivine Comedy: Detheologizing Dante. L’autrice, Teodolinda Barolini, ripercorreva gli accorgimenti escogitati da Dante per convincere noi lettori che quanto narrato nella Commedia corrisponde a verità («How are we to respond to the poet’s insistence that he is telling us the truth?»), presentandosi come poeta teologo ed «eliminando lo scarto» fra ciò che egli dice «e la sostanza della sua operazione letteraria» (così nelle puntuali recensioni al saggio). Barolini aveva intenzionalmente escluso dal dibattimento il teste decisivo dell’Epistola XIII a Cangrande della Scala, e si capisce. Erano anni in cui le polemiche sull’autenticità di quella lettera affliggevano anche i più pacati ambienti accademici statunitensi, con scambi di accuse e toni esasperati ben oltre il tradizionale understatement anglosassone, e la stessa Barolini era intervenuta in prima persona nell’agone.
Quella discussione – ennesimo capitolo di un lunghissimo confronto tra dantisti – pare a noi, oggi, molto più distante del trentennio abbondante che ci separa da essa. Troppi i progressi della scienza filologica e le scoperte documentarie emerse nel frattempo, a sancire una volta per tutte che il testo fu scritto interamente dalla penna dell’Alighieri. Ma occorre dire che molti elementi risolutivi erano già stati acquisiti a monte di quel frangente, valorizzati da illustri filologi del passato, come il geniale reverendo britannico Edward Moore (assolutamente da rileggere i suoi quattro splendidi volumetti di Studies in Dante, usciti a cavallo tra Otto e Novecento) o il tenace dantista italiano Francesco Mazzoni (i suoi lavori sono ora raccolti in più volumi per merito del figlio Stefano Mazzoni, recentemente scomparso, presso l’editore Storia e Letteratura). Come e perché questi contributi non abbiano sempre ottenuto l’udienza sperata è oggetto di ricerca storiografica, ma fin da subito si potrà osservare che la filologia è disciplina aspra, per cui non tutti dispongono – con le parole di Dante – di dentatura adatta.
Conoscenza capillare del poema
A scrivere una pagina che va considerata per molti aspetti conclusiva provvede ora la nuova edizione critica della lettera procurata da Luca Azzetta, filologo che più di ogni altro si è dedicato a questo testo nell’ultimo ventennio portando alla luce elementi fondamentali a soddisfare anche i residui amanti della polemica (Dante Alighieri, Epistola a Cangrande, a cura di Luca Azzetta, Editrice Antenore, pp. 478, € 15,00). Come è noto, l’Epistola XIII consta di due parti, la prima (§§ 1-13) è l’epistola vera e propria indirizzata a Cangrande della Scala in cui il poeta giustifica la dedica del Paradiso; la seconda, più corposa (§§ 13-88, seguiti poi dai due paragrafi conclusivi), impegna la lettura dei primi versi della terza cantica e ne illustra le modalità esegetiche. I sostenitori della tesi del falso parziale (dantesca solo la seconda parte) o integrale, immaginarono un tardo assemblaggio (fine XIV secolo) di materiali esegetici preesistenti messo a punto, forse, da qualcuno che intendeva rivalutare il ruolo degli Scaligeri nella confezione del poema.
Nella corposa Introduzione Azzetta prende per mano il lettore e illustra pazientemente tutte le ragioni dirimenti a favore della autenticità. Riassumendo gli elementi di maggior peso, il testo non poté essere frutto di una operazione tarda perché veniva citato integralmente e come interamente dantesco già all’inizio degli anni Quaranta del Trecento dal notaio fiorentino Andrea Lancia. La coerenza tra prima e seconda parte e le formule di passaggio dall’una all’altra certificano che il testo fu scritto unitariamente dalla stessa mano (diversamente si dovrebbe immaginare un falsario col diavolo nell’ampolla, in grado di ricucire le due sezioni per ingannare i futuri lettori, figura che a questa altezza cronologica è storicamente inimmaginabile); l’autore mostra una conoscenza «capillare» (così Azzetta) del poema, ignota persino ai più acuti commentatori contemporanei. E infine, tutti i manoscritti assegnano il testo a Dante.
A questi elementi Azzetta aggiunge una riflessione di tenore diverso e di grande interesse, tutta incentrata sull’apparato auto-esegetico. La proposta interpretativa dantesca infatti mostra di svincolarsi dai canoni tranquillizzanti su cui si adagiava, per testi di questo genere, la scuola contemporanea. I primissimi commentatori insomma, cercarono di neutralizzare o di ‘deteologizzare’ la Commedia attribuendo al viaggio dantesco la semplice natura di narrazione allegorica (e si torna a Barolini e, prima di lei, al grande dantista Charles Singleton), mentre il poeta avrebbe inteso «tradurre in parole la visione che per grazia gli è stata manifestata», e questo attraverso le strategie «retorico-discorsive proprie della rappresentazione poetico-letteraria, unite alle modalità argomentative proprie della trattazione scientifico-dottrinaria, proprio come avviene nelle Sacre Scritture»: privilegio scandito secondo la triplice tipologia visionaria nota alla tradizione medievale (visio intellectualis, corporalis, spiritualis) che annovera illustri precedenti, da Dante puntualmente citati (san Paolo, gli apostoli della trasfigurazione Pietro, Giacomo e Giovanni, il profeta Ezechiele) e privilegio assicurato a un peccatore dal personaggio biblico di Nabucodonosor. Il viaggio terminerebbe dunque con una visio diretta del mistero dell’Incarnazione, presunzione che proprio l’autodifesa di Dante dimostra essere stata presa sul serio da più di un contemporaneo. E tuttavia proprio una proposta tanto ardita sarebbe stata accuratamente evitata dal fantomatico falsario che avesse voluto presentarsi come credibile.
Le figure di Beatrice e Maria
Nel tentativo di riferire la sua esperienza eccezionale Dante dovette necessariamente ricorrere alla strumentazione disponibile a lui poeta, e in questo tentativo non si può pretendere che tutto fili perfettamente liscio. Azzetta ne è consapevole e non nasconde alcuni problemi di coerenza in ordine alla rappresentazione delle figure di Beatrice o di Maria. Anche la conversione da poema allegorico a visio offre qualche spunto di riflessione. Il filologo riconosce che la prima cantica marca «una certa distanza» rispetto a questa modalità di lettura, che meglio si attaglia a Purgatorio e Paradiso cui l’Epistola XIII si accorderebbe certificando «un cambiamento avvenuto nella coscienza di Dante». Ma se dobbiamo rassegnarci alla conversione dall’Inferno al «poema sacro» viene a chiedersi se sia ancora legittimo il titolo di Comedìa rivendicato dallo stesso autore. Non a caso, notavano i recensori del volume baroliniano, nel richiamare il genere di appartenenza del poema, Dante sembra ignorare «quello che tutti al tempo suo sapevano, essere la commedia appunto lo specimine per eccellenza del verosimile: il che può essere dimenticanza programmata per evitare interazioni con quella considerabile, a sua volta, o come una scoperta ammissione della ‘visione’ o come un modo di procedere comune alla prassi esegetica, che non coinvolge di necessità la diretta esperienza dell’autore».
In fin dei conti Dante aveva «già bell’e pronto, a pueritia, il titolo dell’opera maggiore, quando disse della “mirabile visione”». E lungo il filo di questa riflessione, che dai barattieri conduce alla candida rosa, occorrerà ripensare gli appelli al lettore tanto cari al dantista Saverio Bellomo, che tornano ancora in Purgatorio (VIII 19 ss.) in cui Dante invita a distinguere il «vero» del messaggio dal «velo» della allegoria. Per dire, insomma, che la solidità del volume offre ancora qualche margine di dibattito ai dantisti, non tanto sul chi ma forse sul come.
La visio del contadino tedesco Godescalco
Dal profluvio di pubblicazioni frutto del centenario – esteso dalla pandemia fino al 2022 – è utile segnalare, sul tema della visione, l’edizione della Visio di Godescalco (Visio Godeschalci. Il mondo e l’altro mondo di un contadino tedesco del XII secolo, a cura di Rossana E. Guglielmetti e Giorgia Puleio, Firenze, SISMEL, 2021, euro 52,00): la messa a punto delle due curatrici offre il resoconto – con tanto di terribili supplizi infernali – di una visione dell’aldilà avuta da un contadino tedesco nell’inverno del 1189 e raccolta dal suo canonico.
La veneranda collana Les Belles Lettres offre invece i primi due tomi delle Epistole (Tome I. L’amour et l’exil. Introduction générale. Lettres I – IV / Epistolae I – IV, Paris, Les Belles Lettres, 2022; euro 55,00; Tome II. Le songe impérial. Lettres V – X / Epistolae V – X, Paris, Les Belles Lettres, 2023; euro 79,00). Curati e commentati da un esperto di letteratura dettatoria come Bénoit Grévin, i testi offriranno senz’altro, nei prossimi anni, molti spunti di riflessione a dantisti e filologi.
(p.p.)
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