E’ ormai universalmente sottoscritta la tesi che sostiene Contre Sainte-Beuve, il saggio (1908-’09) dove Proust deposita la sua poetica e annuncia per via indiretta la costruzione della Recherche: esistono l’io di superficie e l’io profondo, l’uno appartiene allo scrittore quale persona anagrafica, l’altro all’autore in interiore homine, cioè colui che mette in pagina la propria opera.

Le cible, il bersaglio di Proust, è il depositario del vecchio metodo biografico, un Accademico di Francia morto da quasi mezzo secolo, Charles Augustin de Sainte-Beuve (1804-1869), firmatario specialmente dei Lundis, profili di scrittori e personaggi storici comparsi a cadenza settimanale fra il ’49 e l’anno della morte, prima sul Constitutionnel poi sul Moniteur (in Italia integralmente solo nel 2013 da Aragno, I Lunedì, a cura di Vito Sorbello), saggi brevi che fecero di lui un principe del giornalismo culturale e, non solo in Francia, la massima autorità letteraria sotto il II Impero.

Formatosi nel culto di Chateaubriand e di Lamartine, con trascorsi di mediocre poeta e romanziere, liberaleggiante malgrado il servilismo mostrato sotto il regime di Napoleone III (che lo ripaga con un corso al College de France, contestatissimo, e un incarico alla École Normale), autore di un capolavoro invece indiscusso come Port-Royal (biografia di un luogo e insieme di un’idea, 1840-’59, da noi a cura di Mario Richter nella superba edizione Einaudi del 2011), Sainte-Beuve non è un teorico ma un critico sul campo, dove gli estremi riflessi dell’idealismo romantico si combinano con gli apporti del nascente positivismo.

In altri termini, ogni volta che Sainte-Beuve mette a punto uno dei Portrait da un lato assembla tutta una materia prima d’ordine biografico (testimonianze, carteggi, varia documentazione), dall’altro si propone di dedurne, tramite la lettura delle opere dell’autore, non tanto la poetica quanto la Weltanschauung o meglio ancora il ritratto spirituale.

È quanto in Francia verrà irrigidito e anzi meccanizzato da Hyppolite Taine, responsabile della trimurti positivista di race/milieu/moment con cui tenta di esaurire ogni forma di espressione; mentre in Italia troverà prosecutori più sottilmente simpatetici, da Carlo Bo e Pietro Paolo Trompeo a Sergio Solmi e al nostro Giuseppe Marcenaro (non per caso editore dello Chateaubriand, Aragno 2015), con la duplice eccezione di Cesare Garboli, che inverte l’ottica di Proust medesimo perché non procede dalla biografia ai testi ma, semmai, retrocede dai secondi alla prima inseguendo uno spettro redentivo dell’artista-uomo dentro la sua stessa opera.

Della figura di Sainte-Beuve, oggi non sempre rammentata, è testimone attendibile il Ritratto di Leopardi che esce a cura di Luca Orlandini con un saggio introduttivo (datato 1994) del compianto Andrea Rigoni e una postfazione ad hoc del poeta Davide Brullo (De Piante, pp. 179, € 18,00). Il Ritratto, già comparso sulla «Revue des Deux Mondes» nel ’44, appena sette anni dopo la morte del poeta, esordisce affermando che al momento Leopardi in Francia è appena un nome.

Chi ne ha suggerita la lettura, fornendo a Sainte-Beuve la bibliografia essenziale e una documentazione ingente, è un grande filologo svizzero, Gabriel Rudolf Ludwig von Sinner ovvero Louis de Sinner, bibliotecario della Sorbona, cui Leopardi aveva infatti affidato a Firenze i propri lavori filologici («39 filze manoscritte» che Sinner donerà alla Palatina, futura Biblioteca Nazionale, nel 1858). L’impronta del filologo svizzero si vede dal fatto che Sainte-Beuve valorizza la filologia del giovane Leopardi e ne inquadra il rapporto con gli antichi trattando in particolare le cosiddette canzoni del dolore storico senza confondere il poeta, come purtroppo capita tuttora, con i romantici coevi e perciò lo definisce «un antico giunto troppo tardi» ovvero «un classico tra i romantici».

E aggiunge, in effetti: «Gli altri si occupavano maggiormente della Germania, del Medio Evo e delle teorie drammatiche: mentre egli raccolse e rivolse i suoi sforzi unicamente a una sublime poesia lirica, e all’estrema perfezione degli scritti in prosa».

Se il critico Sainte-Beuve non può avere la competenza filologica del Sinner o di un Sebastiano Timpanaro (La filologia di Giacomo Leopardi, primo studio sistematico in materia, uscirà soltanto nel 1955), se pure non possiede il genio storiografico di un De Sanctis – che però di Leopardi tendeva ad accorciare proprio la distanza dai romantici–, Sainte-Beuve nemmeno può disporre dello Zibaldone e della maggior parte degli scritti postumi. Deve farsi bastare I Canti (avrà avuto tra mano la pessima edizione Starita del 1835, perché la postuma di Le Monnier esce un anno dopo il suo articolo) e alcuni ne parafrasa senza azzardarne la traduzione in versi, nonché le Operette morali che preferisce al Candide perché «Leopardi è più serio di Voltaire anche quando scherza, e inoltre esplora il fondo delle cose».

Dunque Sainte-Beuve non può conoscere lo Zibaldone (e perciò omette il nome di Rousseau e di ogni altro philosophe trattando di nostalgia dell’antico); non fornisce adeguato rilievo né agli idilli giovanili né ai grandi canti pisano-recanatesi, probabilmente sopravvaluta il ciclo terminale di Aspasia; nulla sa de La ginestra eppure arriva a indovinare il sostrato filosofico che alimenta i versi leopardiani («perché non altro è la poesia, il pensare» scrive Brullo recuperando l’immagine coniata da Antonio Prete), così come riesce a dire chiaro e tondo «ateismo» laddove due secoli di esegesi non hanno ancora debellato la parola «pessimismo»: e dovrebbe bastare la definizione, riferita all’agonismo del Bruto minore, di «nobile e generosa malinconia (…) e di muta, indomabile fierezza» per scalzare l’immagine a lungo vulgata, in Francia così come in Italia, quella del poeta corrucciato e afflitto in eterno dai suoi mali che il nemico Tommaseo propalava con ipocrita malignità e Alfred de Musset riassumeva nel verso sombre amant de la mort (più o meno «cupo amante della morte»).

Lo stile espositivo di Sainte-Beuve è chiaro, la costruzione è semplice senza essere povera, la pagina è onusta di citazioni testuali e di riferimenti puntuali, sempre di primissima mano (e qui va detto che Sainte-Beuve, professore di latino, non solo masticava le lingue romanze ma, di madre inglese, era in pratica bilingue): più limitati sono i suoi rilievi propriamente tecnici ma, nel caso, essi vengono introdotti alla maniera di elementi probatòri; la conformazione della pagina è d’ordine esplicativo prima che valutativo ma conduce sempre alla sintesi del profilo spirituale, sia esso di natura letteraria oppure etico-politica come nei casi per esempio di Federico il Grande o Saint-Just o lo stesso Voltaire (si vedano i Ritratti, a cura di Anna Maria Scaiola, Lucarini 1988, e innanzitutto I miei veleni, uscito da Pratiche nel 1984 con una bellissima introduzione di Jacqueline Risset).

Ma dove, e si è già visto, Sainte-Beuve davvero eccelle pari a ogni altro critico di rango, è nel conio delle definizioni complessive e dei veri e propri aforismi critici che per lo più scattano in clausola come si trattasse di istantanee: egli non può neanche immaginarlo ma è lì che emerge l’io proustiano e pronuncia per lui le dernier mot, l’ultima parola.