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Leonardo Manzan: «La mia provocazione per scuotere gli artisti»

Leonardo Manzan: «La mia provocazione per scuotere gli artisti»Leonardo Manzan

Intervista «Uno spettacolo di Leonardo Manzan», dal 6 al 10 marzo al Teatro India di Roma, tautologia ironica della scena contro il vittimismo

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 6 marzo 2024

Uno spettacolo di Leonardo Manzan. Abbiamo usato il corsivo non a caso: è proprio questo il titolo del nuovo lavoro del regista e attore romano classe ’92. Insieme a Paola Giannini e Rocco Placidi, Manzan proporrà una riflessione sul ruolo dell’artista, un corto circuito (auto)ironico che scuote e interroga le regole correnti del discorso teatrale. L’autore ci ha abituato alla sua inventiva che investe ogni volta in modo diverso i meccanismi della messa in scena. Dopo l’affondo sulla censura in Glory Wall e la versione rap di Cyrano de Bergerac (entrambi premiati alla Biennale Teatro), da stasera a domenica al Teatro India di Roma Manzan è pronto per il passo decisivo: mettere a valore se stesso in quanto tale.

Nelle note di regia scrivi che «il perdente di talento» è il personaggio protagonista del teatro contemporaneo. Cosa significa?

In questo spettacolo facciamo una parodia dell’autore autoreferenziale e nel farlo critichiamo quella che definirei la «deriva» dell’autofiction, sempre più diffusa nel teatro di oggi, quando la narrazione di sé diventa una sorta di lamentela costante, di messa in pubblico delle proprie miserie. Mi viene in mente una figura come Zerocalcare, una superstar che continua a interpretare il personaggio dello sfigato quando è evidente che ormai è tutt’altro. È un modo per creare empatia, un trucco retorico che funziona. Eppure mi sembra una mossa un po’ vigliacca.

Il tuo teatro è attraversato da una forte verve polemica. Ti interessa solo la «pars destruens» o anche la «pars costruens»?

Non credo di fare solo una critica. In questo spettacolo mi metto in scena su un piedistallo, mi presento come se fossi un’opera d’arte. Una scelta autoreferenziale che vuole essere una sorta di appello accorato agli artisti per riprendersi i piedistalli con dignità e anche con un minimo di arroganza consapevole. Che ci si prenda la responsabilità di dire che si sale lì sopra perché si pensa effettivamente di avere qualcosa da dire agli altri. La mia è chiaramente un’alternativa provocatoria, di una presunzione estrema, ma io lavoro sempre sugli estremi.

L’idea di «museificare» il teatro, come ti è venuta?

Nel concepire gli spettacoli partiamo sempre da ispirazioni di tipo soprattutto visivo, immaginando cosa ci farebbe piacere ci fosse sul palco. Da lì cerco poi di far discendere una scelta radicale, di non concedermi scappatoie. Così è stato per il Cyrano, in cui abbiamo fatto un concerto rap dall’inizio alla fine. Lo stesso per Glory Wall, dove abbiamo costruito un muro che è rimasto in proscenio per tutto il tempo. E così stavolta, in cui c’era questa immagine di me esposto, una sorta di David meno bello, quella era l’idea di partenza che abbiamo provato a mantenere con coerenza, gli elementi che compongono poi lo spettacolo la rafforzano. Questi inneschi spesso ci permettono di uscire un po’ dagli schemi teatrali, cercando un’ibridazione con altri linguaggi, per metterci un po’ in difficoltà da soli. Questo non significa però che lo spettacolo potrei farlo in un museo perché l’aspetto interessante è proprio utilizzare codici diversi nella scatola teatrale, mi interessa la contaminazione che è un combattimento, in cui il teatro alla fine ha sempre la meglio.

In passato hai affrontato il tema dell’autocensura. Possiamo declinarla anche come la volontà di non rispondere in maniera addomesticata alle aspettative.

Sì, ce l’ho con un certo modo di fare teatro e sto ancora cercando di capire cos’è che mi infastidisce così tanto, perché non riesco a scrollarmi di dosso questo rancore. Del teatro contemporaneo mi dispiace soprattutto che non abbia alcun contatto con la realtà. Lo spettacolo parla anche di questo: ci si lamenta del fatto che il pubblico teatrale è soprattutto un pubblico di addetti ai lavori che se la raccontano tra loro. Si fanno grandi tavole rotonde su come riportare il pubblico «generico» a teatro. Ma mi sembra invece che la realtà sia esattamente il contrario, gli artisti non hanno alcun piacere che quel tipo di spettatori entrino a teatro, e quando succede si sente la necessità di «educarli». Credo che questo elitarismo teatrale in fondo ci faccia stare bene perché ci dà meno preoccupazioni: chi nella vita fa altro, quando viene a teatro dà una valutazione molto più onesta. Accontentare questo pubblico mantenendo alta la qualità è molto difficile ma credo sia un obiettivo da porsi.

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