Leonardo Di Costanzo, «Procida» e il gesto della trasmissione
Intervista Il regista racconta l’esperienza del laboratorio da cui è nato il film, in occasione della presentazione domani a Filmmaker Festival. Il ruolo del formatore, l’auto-educazione, le abitudini filmiche da superare
Intervista Il regista racconta l’esperienza del laboratorio da cui è nato il film, in occasione della presentazione domani a Filmmaker Festival. Il ruolo del formatore, l’auto-educazione, le abitudini filmiche da superare
Mare, tufo giallo, vegetazione rigogliosa. Procida è l’isola dove i bambini trascorrono l’estate a giocare, mentre signore anziane in ammollo si raccontano in dialetto cos’hanno preparato per pranzo. Approdo sicuro e segreto di sognatori, innamorati, capitani di lungo corso, pescatori notturni, viaggiatori in cerca di pace. Procida, esito di «Film Atelier 2022», è un affresco vivo, celato e ardente che accorda gli sguardi di dodici fortunati giovanissimi che l’estate scorsa sono stati selezionati per un corso immersivo di regia di cinema documentario finanziato dalla Regione Campania nell’ambito di Procida Capitale 2022, promosso dalla Film Commission Regione Campania, coordinato da Antonella Di Nocera per Parallelo 41 produzioni. Direzione artistica e pedagogica d’eccezione di Leonardo di Costanzo, affiancato da Caterina Biasucci, Claudia Brignone, Lea Dicursi, sue ex allieve all’Atelier di Cinema del Reale di FilmaP. Dopo una primissima tappa a Locarno, Procida sarà presentato in anteprima nazionale il 18 novembre al Filmmaker Festival di Milano e il 19 al MedFilm Festival di Roma. Ne parliamo con Leonardo Di Costanzo.
Con che criterio è stato selezionato il materiale?
La prima scelta è stata se fare un film a episodi oppure uno solo. Essendoci stili molto diversi, pensavano ci potesse essere qualche difficoltà nel creare qualcosa di omogeneo. Un altro punto di svolta è stato decidere che i ragazzi dovessero essere presenti. Credo che l’idea che sottende un po’ tutto è che esistono, attraverso le loro domande, le loro voci. Questo gruppo di ragazzi e ragazze che gira per l’isola è il personaggio fuori campo, credo che lo spettatore lo accetti. È la prima volta che lavoro in questo modo, solitamente ogni film è portato a termine, ognuno fa il suo. Vorremmo replicare questo esperimento, coprire altri territori, far tesoro di quest’esperienza.
Sorprende che, mentre l’isola era sotto i riflettori di Capitale della Cultura, sia venuto fuori un ritratto desueto, poetico, lento.
C’erano molte manifestazioni legate a Procida Capitale. Abbiamo lasciato liberi i ragazzi di cercare anche da quelle parti, sono stati attratti dalle persone, dai luoghi, dalle storie. L’amore diviso dal mare, l’estate, la crescita dei bambini: sono andati a cercare tratti archetipici. Li abbiamo incoraggiati a guardare dove la realtà diventa romanzo, favola, racconto condivisibile, quindi deve andare a toccare storie che se le fai male diventano clichés, oppure possono diventare cinema. Molti non conoscevano l’isola. È uno sguardo vergine, impressionista, un porsi in maniera molto ricettiva. Ascoltarsi, ascoltare il luogo, i propri desideri.
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«Ariaferma», uno spazio comune attraverso le sbarreSono anni che lo faccio e mi chiedo perché, evidentemente trovo il mio conto, creativamente imparo. Si può parlare di insegnare quando hai la sensazione di dare e ricevere. Stare all’ascolto, riflettere con loro sul fatto che lì c’è la favola, la possibilità di affinare lo sguardo. C’è anche un momento in cui bisogna rompere. Quando ho iniziato anni fa, i ragazzi erano sguarniti, oggi ognuno ha già fatto una parte di cammino nella scrittura per immagini del mondo intorno a sé. La prima cose è distruggere le false abitudini, le convinzioni che non portano da nessuna parte: idee ricevute da altri, cercare la facilità, l’effetto. Poi loro girano, tornano e guardiamo. Tra compagni si rendono conto di cosa funziona e cosa no, se quella è una situazione interessante perché tutti si divertono o si commuovono, o sono attenti. Non s’insegna, è la classe, non sono io. Capiscono ciò che è cinematografico nella vita, è quasi un’auto educazione. Per alcuni è stato flagrante questo cambiamento che hanno dovuto fare rispetto a una pratica che avevano, nei più formati c’è stata proprio una trasformazione.
Pur trattandosi di sguardi diversi, c’è una profonda armonia che caratterizza il lavoro, c’è una matrice, un sentire comune, come se a girare fosse stata un’unica persona.
Nella giustapposizione di elementi così diversi c’è uno spazio per lo spettatore per farsi il proprio racconto, non è tutto tenuto da una logica ferrea. Ci siamo interrogati su questa questione degli sguardi differenti, abbiamo lasciato loro massima libertà: avrebbero potuto filmare quello che volevano, nel modo in cui volevano, intervenendo parlando, stando vicini o lontani dai personaggi. Un solo elemento era uguale per tutti: il rispetto delle persone. Cercare l’incontro. C’è questa vecchia massima di «fare i documentari con le persone, con i luoghi e non sui luoghi», così da non sentire di stare rubando qualcosa. Educazione allo sguardo è ascoltare l’altro, capire la ricchezza, la bellezza che c’è anche nella semplicità, alimentare la propria curiosità. Nel ’94 facemmo una scuola di cinema documentario in Cambogia. Ricordo una donna, lavorava nei servizi audiovisivi del Ministero. Andava a girare, tornava e piangeva. Un giorno le chiesi: perché piangi? «C’è una povertà che mi fa soffrire». Le dissi che era la prima cosa che avevo avvertito sceso dall’aereo: com’era possibile che non se ne fosse accorta? «Guardare attraverso l’occhio della camera è diverso, sono costretta a fermarmici». È tutta una questione di rapporto, tutto cambia nel momento in cui si decide di guardare, osservare.
«Procida» è un lavoro collettivo, le tue ex allieve sono diventate a loro volta «maestre». Quanto serve affinare lo sguardo, soprattutto oggi?
Sono state loro a impostare la prima parte del lavoro, fase importantissima: è un valore aggiunto, di cui vado molto orgoglioso. Passare il testimone. Nel futuro dobbiamo fare in modo che i ragazzi che abbiamo formato diventino formatori. Ho imparato molto aiutando gli altri: fa riflettere, guardare le cose da punti di vista diversi. Non si tratta di insegnare ma di capire qual è quella sensibilità, quello sguardo, aiutare le persone a essere consapevoli della propria modalità tutta propria di guardare il mondo e raccontarlo. È un problema di democrazia: il linguaggio per immagini è quello con cui riceviamo gran parte delle informazioni. Premiamo un bottone e si va. Invece occorre fermarsi, dare senso, capire anche il pericolo, i rischi che ci sono dietro l’atto del filmare, dargli dignità, sia come creatori di immagini che come spettatori.
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