Leonardo Di Costanzo «Fare cinema non è un format»
Intervista Il regista napoletano parla della sua esperienza e del workshop di Milano Film Network «In progress»
Intervista Il regista napoletano parla della sua esperienza e del workshop di Milano Film Network «In progress»
In progress, il laboratorio produttivo organizzato da Milano Film Network vede tra gli autori di profilo internazionale contattati per gli incontri di studio Leonardo Di Costanzo, cineasta di origini napoletane ma italieno avendo maturato successo e esperienza all’estero prima di sbarcare sulla laguna veneziana con A scuola e l’anno scorso con L’intervallo distribuito nelle sale. Dal suo laboratorio del 2012 erano usciti due vincitori del Premio Solinas e il vincitore di quest’anno del Premio Corso Salani. Qual è il segreto del mestiere di questo documentarista? Ne abbiamo parlato con lui per farci spiegare cosa significa quello «sviluppo» nell’ambito della produzione di un film e perché un autore si dovrebbe iscrivere.
«Il corso di Milano – sottolinea Costanzo – che riprende l’esperienza di Filmmaker negli anni precedenti copre l’esigenza di entrare nel momento di solitudine della creazione, in cui da un’intuizione o un’idea si passa al progetto concreto che ci vuole come base per andare alla ricerca di produttori, contributi e finanziamenti. Ed è proprio per saper meglio gestire quel momento in cui si inizia a strutturare il proprio pensiero che In progress invita autori/autrici a condividere con altri/e quegli innamoramenti di una realtà per confrontarsi e chiedersi: la mia è solo una proiezione? Vuole offrire l’occasione per guardarci meglio, scoprendo che quell’«oggetto del desiderio» è solo la punta dell’iceberg perché il vero soggetto sta sotto ed è tutto da esplorare.
Tu sei con Michelangelo Frammartino coinvolto accanto ad altri professionisti e professioniste provenienti dai settori di montaggio, produzione, distribuzione, selezione nei festival, ed entrambi siete cineasti che avete elaborato un linguaggio visuale forte…
Noi arriveremo di tanto in tanto per suggerire, da spettatori, come raccontare un desiderio, facendo domande ai partecipanti aiutandoli a porsi le giuste domande. Verbalizzare le idee significa organizzare un pensiero e renderlo… realizzabile. Non imponiamo un format, piuttosto affianchiamo le persone per riuscire a trovare il proprio linguaggio. Spesso cercano una ricetta per avere successo, quando per arrivarci ci vuole un percorso di ricerca personale, di conoscenza e uso coerente di strumenti. Fare cinema non è una tecnica da imparare, ma un insieme di tecniche, seguendo dieci semplici regole.
Tu hai frequentato l’Atelier Varan a Parigi e successivamente hai insegnato nei loro corsi di formazione. Quali sono le caratteristiche didattiche?
Innanzitutto, vent’anni fa rappresentava una novità: non c’erano lezioni frontali bensì ogni elemento del gruppo di studenti faceva un film e c’erano due accompagnatori a supportarli nella fase realizzativa. Per togliere dubbi, e soprattutto per fare, anche sbagliando, esperienza. Vale il classico detto: sbagliando si impara. Ogni film presenta le sue difficoltà, e vanno trovate le soluzioni ma non secondo un modello precotto dal mercato bensì scavando ognuno nel proprio.
Con Rithy Panh hai fondato nel 1994 un centro di formazione per documentaristi a Phnom Penh. Puoi raccontarci quell’esperienza?
Va detto che uno dei propositi dell’Atelier Varan è insegnare cinema nel cosiddetto terzo mondo. Sono stato in Colombia, a Belgrado e a Tbilisi, stiamo per organizzarne uno a Teheran, e certo non si va a «insegnare» come fare cinema in quanto molti di questi paesi hanno una forte tradizione cinematografica. Per cui con i nostri interventi insegnamo un metodo che gli permetta di far dialogare le loro tradizioni sia culturali, teatrali o cinematografiche. E così facendo ho imparato tantissimo sul mio mestiere, nutrendo molto la riflessione sul modo di fare documentari. Tornando a Rithy Panh, allora era appena stata liberata la capitale, ma attorno c’era ancora la guerra civile e i gruppi dei Khmer rossi a sparare. Fu la prima cosa che mi aveva colpito. Dunque mi ero chiesto: come filmare questa realtà? I ragazzi facevano gli esercizi di ripresa e tornavano piangendo perché il cinema li aveva obbligati a entrare in contatto con l’orrore che loro ignoravano nella vita quotidiana. Una realtà potente e il cinema doveva, cioè deve, essere altrettanto potente, e fare da filtro per non essere pornografia o puro compiacimento. È l’unico modo per individuare un proprio punto di vista senza comunicare uno sguardo pietistico.
Come si procede per elaborare uno sguardo simile?
Cercando di educare lo sguardo e imparando a leggere le immagini, come fa una collega francese al Museo di Capodimonte a Napoli, invitando i corsisti a riprodurre alcuni quadri del 700 e nel riprendere i dettagli imparano a leggere un dipinto. Così chi ha un’idea prova a esplicitarla per esporla e chiedere: tu cos’hai capito?
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