Cultura

L’enigma della merce per György Lukács

L’enigma della merce per György LukácsUn’immagine di György Lukács. Getty Images

Novecento Intorno al centenario della pubblicazione di «Storia e coscienza di classe». Con le sue analisi, l’intellettuale marxista faceva saltare la distinzione tra struttura e sovrastruttura. In quel testo emergevano elementi della riflessione con Rosa Luxenburg e una teoria di storia e società come totalità costruita sulla generalizzazione della «forma merce»

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 21 novembre 2023

A cent’anni dalla sua prima pubblicazione nel 1923, la lettura di Storia e coscienza di classe di György Lukács lascia nell’animo qualcosa di conturbante. La sua straordinarietà deriva dal fatto che in quel testo il giovane Lukács condensava elementi della comune riflessione con Rosa Luxemburg – la dialettica di movimento e scopi, la coscienza luogo privilegiato di maturazione, la prassi strumento in primo luogo educativo – in una teoria della storia e della società come totalità costruita attorno alla generalizzazione della «forma merce» (dalla cui concettualizzazione rimase influenzato anche l’Heidegger di Essere e tempo) e ai processi di «feticizzazione», «reificazione», «alienazione» che ne erano scaturiti, dando un rilievo cruciale agli elementi sovrastrutturali rispetto a quelli strutturali e facendo saltare la stessa distinzione tra struttura e sovrastruttura. L’enigma della merce sta nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone viene reificata, riceve cioè il carattere della cosalità e quindi «un‘oggettualità spettrale che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini».

DALL’AMBITO PRODUTTIVO la struttura di merce si estende all’intera vita della società, diventa una categoria universale dell’essere sociale e le leggi che regolano il mondo delle cose e i rapporti tra le cose «pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione».

La convinzione secondo cui «il potere di ogni società è essenzialmente un potere spirituale e da esso ci può liberare soltanto la conoscenza» veniva portata da Lukács fino ad estreme conseguenze, consistenti nell’identificare il fondamento di un processo rivoluzionario in futuro vittorioso nella «riforma della coscienza». Qui, con la riabilitazione della coscienza e della soggettività, si era giocata una partita decisiva intorno a quella che già agli esordi del Novecento aveva voluto configurarsi come un’esaltazione della «morte del soggetto».

Non per caso, grosso modo nello stesso arco di tempo, Rosa Luxemburg, in carcere per la Rivoluzione spartachista dei Consigli del 1919, poco prima di essere assassinata aveva scritto che «la cosa principale è essere buoni, semplicemente essere buoni, è ancora più importante di avere ragione …» e Lukács aveva vagheggiato il miracolo della bontà, «qualcosa come una conoscenza degli uomini che irradia penetrando in tutto e in cui soggetto e oggetto vanno a coincidere».

Il giovane Lukács derivava direttamente da Marx la sua teoria del feticismo della merce, così come mutuava da Weber la sua visione della razionalizzazione quantitativa capitalistica, la sua intrinseca «calcolabilità» (benché in lunghi colloqui che ebbi con lui nell’agosto del 1970 l’anziano Lukács minimizzasse l’importanza di Weber per la sua formazione: «non c’è nulla di Weber – mi disse – che non ci sia già in Marx che mi abbia influenzato»).

Lukács, però, compiva comunque una mossa in più: correlava «feticismo» e «calcolabilità» dando a entrambi un carattere più ampio. Il connubio operato tra Marx e Weber, infatti, gli consentiva lo slancio per investire pienamente della forza della razionalizzazione quantificatrice, oltre alla sfera produttiva, quella riproduttiva: la sovrastruttura ideologica, la letteratura, il diritto, l’economia politica, la filosofia.

Tutto ciò suscitò grande scandalo nei marxisti ortodossi dell’epoca e nei successivi: questo tipo di modello interpretativo vedeva luxemburghianamente la contraddizione fondamentale del sistema di produzione capitalistico come contraddizione del capitale stesso e poneva l’elemento portante della socializzazione capitalistica non nel rapporto antagonistico di classe tra capitale e lavoro, ma nella struttura di merce in sé, la quale porta a una fortissima integrazione tra «economico» e «sociale» e al dominio dell’«economico».

Nel compiere questa analisi, Lukács faceva emergere fin dagli anni Venti elementi importanti anche per il presente. Infatti, tanto più oggi il senso della sua teoria della reificazione consiste nella scoperta delle «forme mediatrici della coscienza» all’interno della «costruzione di una società articolata in senso puramente economico», posto che il capitalismo è «il primo ordinamento di produzione che tende ad una completa assimilazione economica della società nella sua interezza».

Il processo di razionalizzazione, da una parte provoca una perdita di connessione tra esperienze empiriche diverse, dall’altra «si trasforma in una riunione obiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità». La divisione sociale del lavoro fa saltare la differenza «tra l’operaio di fronte alla singola macchina, l’imprenditore di fronte a un certo tipo di evoluzione delle macchine, il tecnico di fronte allo stato della scienza», differenza «puramente quantitativa, e non direttamente una differenza qualitativa nella struttura della coscienza».

PERTANTO, il giovane Lukács coglieva sia il soggiacimento di tutte le classi alla reificazione, sia un elemento fondamentale di quel processo di proletarizzazione che contraddistingue la società del capitalismo moderno, vale a dire che anche il lavoro più spirituale è ridotto a merce. Al tempo stesso non defletteva dalla sua ricerca umanistica: «la vita dell’uomo come uomo nel suo riferirsi a sé stesso, agli altri uomini, alla natura, può diventare vero contenuto di vita dell’umanità. L’uomo come uomo è socialmente nato».

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