Rubriche

L’enigma del talento

Divano La rubrica settimanale di Alberto Olivetti

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 20 maggio 2016

A contraddire l’antica sapienza racchiusa nell’adagio ippocratico «Ars longa, vita brevis», la vicenda di Amedeo Modigliani confermerebbe che una vita breve consegue il ‘compiuto’ in arte.

Almeno il compiuto moderno, a voler declinare senz’altro «ars» nel significato complesso e plurale che il termine «arte» (come, del resto, avviene del termine «vita») ha assunto in Europa nei primi vent’anni del Novecento. Dunque, all’arte e alla vita non presiedono più misure diverse? Cancellata l’antica, fatale dismisura si è affermata una loro commisura? Essa, drammatica e inquietante, espone l’educazione all’arte di un tempo all’enigma del talento. Talento, concentrata ricchezza d’una fulminante dote posseduta integralmente e dall’inizio, da spendere, se del caso, fino alla dissipazione, fino allo sperpero.

L’artista si consuma tutt’intero nell’opera e, se in essa si perde, è proprio in virtù di quel suo essersi perso, che l’opera sua ci arricchisce. A detta del grande Hokousai, una lunga vita non assicura d’ottener più di tanto in arte: pressoché centenario, lamenta di morire allorché, dopo tanto intenso e continuo studio, ha imparato, dice, a disegnare bene un filo d’erba. Ma una vita breve è bastevole ad ottenere un possesso pieno dell’arte? È il primo fiore della vita che consegue la pienezza dell’opera d’arte. È la consapevolezza parziale; lo stato nascente; il non pieno possesso.

Non il dominio, ma l’azzardo. Non il controllo, ma l’abbandono. Unilateralità; innocenza; spontaneità. Adolescenza che affida al talento il dominio, che saggia, nel suo darsi interamente, il repentaglio di un mancato controllo e afferma la giovinezza come stagione unica di vita e di arte.

Giovinezza. Viaggia l’Occidente da centocinquanta anni. Salpa nel 1871 con «Le Bateau ivre» di Rimbaud e veleggia su rotte opposte alla scespiriana maturità: «ripeness is all». Mi chiedo a quali regole di cronologia vada riferita la ‘maturità’ o la perfezione d’un’opera d’arte. Quali ‘anni’, brevi o lunghi, la comporrebbero? E quali gli ‘anni’ della pittura di Modigliani? Quelli della guerra, dal 1914 al 1918, con i mesi del ’19 che, nel solco della guerra, ancora scorrono? Modigliani muore, trentacinquenne, il 24 gennaio del 1920. È invalsa la convenzione che autori e opere di quel periodo mostrino la «stimmung» dell’epoca della strage continentale esibendo le fibrillazioni o le dissezioni o le deflagranti violenze e le derisioni alle quali furono allora sottoposte sintassi e grammatiche ricevute.

Modigliani, pittore di volti e di corpi estatici delineati in archi di mandorla, custodisce la sua opera al riparo dal ferro e dal fuoco che, ai suoi fugaci giorni, lacera e strazia i corpi. Si attiene a regole attestate nella pittura senese del Trecento e del Quattrocento: Simone, Sassetta, Neroccio. Non si stacca mai dalla condizione del ritratto, ovvero dall’astante in posa, la cogenza che egli restituisce in cifra lineare. Scriveva Renato Paresce a Giovanni Scheiwiller, da Parigi, nel gennaio del 1930: “Dipingeva recitando versi del Poliziano, canti danteschi (…) disegnava sulla tela meticolosamente con un tratto unito e continuo e poi con pazienza di primitivo riempiva il contorno, curandosi di non celarlo accavallandovi pennellate incoerenti o disordinate. (…) un tratto esile ma preciso ed essenziale (…) con una linea perfetta nella sua sinuosità, quasi diafana riuscì a comunicare alla realtà quella vibrazione e quell’accento di poesia profonda che forse soltanto i pittori senesi avevano espresso prima di lui. E si approssimò alle soglie dell’irrealtà, mediante la immaterialità”.

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