Len Howard, la mia sinfonia con gli uccellini
La naturalista inglese Len Howard nel gennaio 1952 – Daily Mirror / Mirrorpix via Getty Images
Alias Domenica

Len Howard, la mia sinfonia con gli uccellini

Classici di etologia Abbandonata una carriera da musicista a Londra, Len Howard si trasferisce (è il 1938) nell’East Sussex in un cottage aperto agli uccelli di ogni specie. Adelphi traduce i suoi commoventi trattati: «Star»
Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 ottobre 2023

Gwendolen (Len) Howard nacque nel 1894 a Wallington (Londra), ultima di quattro fratelli. Il padre, Henry Newman, era poeta. La trilogia cristiana delle sue tragedie in versi riscosse successo, in particolare venne lodato Kiartan the Icelander (1902), incentrato sull’introduzione del cristianesimo in Islanda. La famiglia si spostò variamente, anche nel Galles, ma a Londra Gwendolen intraprese la sua carriera di suonatrice di viola nell’orchestra di Malcolm Sargent, compositore e direttore d’altissimo livello, stimato da Toscanini; dava lezioni di musica, organizzava concerti per i bambini poveri.

Nel 1938, di colpo, lasciò Londra e la carriera. Comprò un pezzo di terra fuori dell’antico villaggio di Ditchling, e si fece costruire un cottage. Intese vivere sola, nella vasta corale orchestra degli uccelli, per i quali aveva ricevuto una folgorazione – in parte ereditata dalla tenerezza paterna verso gli esemplari feriti di cui si prendeva cura.

Con caparbietà inglese allontanò qualunque fonte di disturbo all’intorno. Aprì le finestre, lasciò che gli alati girassero per casa liberamente, in totale confidenza con lei, che li nutriva e li aiutava in ogni modo, con infinita tenerezza, privandosi del proprio cibo razionato per nutrirli negli anni di guerra. Come aveva compreso, era la paura a interferire sui loro comportamenti, che gli scienziati studiavano quasi sempre in cattività. Nel 1950, dopo dodici anni di convivenza e di studi, fu in grado di pubblicare il primo libro, Gli uccelli come individui.

Julian Huxley, il naturalista della famosa famiglia, fratello di Aldous, le scrisse una breve prefazione, elencando i punti di forza di quel libro insolito, da cui scaturivano scoperte che i suoi colleghi biologi avrebbero dovuto tenere presenti. Quando l’osservazione è giornaliera, costante per anni, si finisce per conoscere gli uccelli individualmente, e per scoprire che sono diversi tra loro. La paura inibiva il loro comportamento, e soltanto se li si liberava da essa potevano svelare la loro intelligenza.

L’essere musicista dotava la Howard di un orecchio competente nel riconoscere le qualità del canto, e addirittura il carattere compositivo: la facoltà di svilupparlo gradualmente da un avvio semplice, fino alla frase musicale quasi identica all’inizio del Rondò nel concerto per violino di Beethoven, da parte di un merlo maschio. Da etologo qual era, Huxley comprendeva poi che il divertente capitolo sul gioco degli uccelli offriva delle osservazioni interessantissime sulla riduzione della rivalità territoriale e dell’aggressività durante i periodi di siccità. La Howard si era accorta infatti che il comportamento sociale poteva variare con una saggezza e una previdenza che contraddicevano qualunque idea potevano avere gli umani sulla loro incapacità di convivenza pacifica, tanto più in condizioni di emergenza: prevedendo le condizioni meteorologiche sfavorevoli e prendendo le opportune precauzioni per la sopravvivenza comune. Miss Howard non doveva aspettarsi però l’unanime consenso degli studiosi. Quanto a lui, ne era rimasto avvinto e deliziato.

Nel 1956, a conclusione del secondo libro, La mia vita con gli uccelli, Howard spiegò: «Qualunque generalizzazione sul comportamento degli uccelli, persino all’interno della stessa specie, è quindi impossibile: le loro azioni dipendono in larga parte dalle differenti qualità mentali e caratteriali che costituiscono la personalità di un individuo. Chi ignora l’esistenza di tali qualità negli uccelli e parla del loro comportamento solo in termini di azioni automatiche e reazioni a stimoli ignora la verità». Howard riesce a scrivere solo la sera, quando viene buio, e può staccare dall’impegno fisso che le comporta quella convivenza dalle 5 del mattino al tramonto (gli uccelli non sopportano il ticchettio della sua macchina da scrivere).

In questi giorni Adelphi pubblica entrambi i libri di Len Howard in un unico volume dal titolo Star Una cinciallegra di genio (collana «Animalia») traduzione di Valentina Marconi, pp. 574, euro 38,00). Leggendo le annotazioni minuziose della Howard, anche noi restiamo avvinti e deliziati, tale è la partecipazione, la concentrazione con cui osserva e registra minutamente ciò che accade, con il suo genio intuitivo. Descrive il paesaggio, la vita della natura circostante: gli alberi, le piante, le gemme, i fiori, i cieli, le luci, le nuvole, le trasformazioni di giorni, mesi, stagioni: la parte dell’East Sussex dove si inoltra a perlustrare. Ci cattura come in una trama sinfonica insieme a lei, carcerata a cielo aperto, che ha deciso di tenere il personalissimo concerto della propria vita.

Altro aspetto singolare, Howard parla costantemente di «biografie» dei suoi uccelli. Li distingue con nomi suggeriti da aspetto fisico e carattere. Ne traccia le genealogie, con gli intrecci delle parentele laterali, arrivando tra il 1940 e il 1954 a definire parecchie di quelle vite che al massimo durano sei, dieci anni. In effetti, sebbene sappia di appartenere a un genere diverso, e spesso meno lungimirante, essi sono la sua «famiglia». Sembra che in ciò assomigli a Konrad Lorenz, ma la sua devozione familiare ha qualcosa di francescano, in quel gesto di mani levate verso il cielo, mentre gli uccelli si posano su di esse, sulla testa, sulle spalle: una circonfusione cosmica che il simpatico Lorenz con tutte le sue papere non può vantare.
Questo doppio libro non è un trattato, ma una rivelazione di esperienza fatta momento per momento; e del tempo, della durata, della vita in fieri, dell’intelligenza e del ritmo che ne viene, possiede il segreto. Niente la Howard ci dice di sé, tranne quando registra ciò che fa, le misure che prende nell’accoglienza e nell’accudimento protettivo dei suoi coinquilini celesti, e riferisce le loro reazioni, o quelle degli amici in visita. Niente fa trapelare, se non un’abnegazione che appare assoluta, e la sua disposizione musicale: un insieme di elementi: precisione matematica e sensibilità acutissima; cultura, memoria sonora e attitudine compositiva, non esercitate nel comporre musica, ma nel farsi pervadere dalle ricchezze delle sensazioni uditive, restituendole nella scrittura. Avvertiamo più volte che quella disposizione musicale è al cuore di tutto, che forse è qualcosa che apparteneva alla poesia paterna, e che in questo libro è come il legame delle corrispondenze nel libro della Natura, per Baudelaire. È il medium pervasivo e panico a consentirle di raccontare con una maestria pittorica che ha del magico, per esempio, ciò che accade nel clima tetro di una giornata grigia di dicembre, lungo gli argini del fiume Ouse, nell’aria umida e fredda.

Ogni cosa è immobile, spenta, senza vita e senza suono, la collina di Firle Bacon e il monte Caburn sono ombre, e verso il mare e a est tutte le colline giacciono sfocate e fuse con il nero delle nubi, nella calma inquietante. D’improvviso la melodia ricca e articolata di un tordo rompe il silenzio pesante, e contemporaneamente un raggio di sole colpisce la sommità del Caburn, in una punta d’oro. A poco a poco la pozza di luce si allarga, illumina la collina nel buio sottostante, il tordo canta come fosse primavera da un albero sul fiume, man mano che la luce si spande, ogni uccello, ogni mandria, ogni cavallo si rianima: la metamorfosi è un’epifania. Sebbene l’euforia duri per poco, l’effetto resta nell’aria, gli uccelli riprendono a mangiare, è ripresa la vita.

Le tre pagine che Howard dedica all’effetto epifanico, di vera aisthesis del paesaggio vivo, sono tra le più belle, ed è naturale che preludano al capolavoro del libro, il capitolo sul canto. Il canto è l’aspetto più straordinario degli uccelli, creature nervose, emozionabili, sensibili alle atmosfere, che si intonano con il sole. Lei vi si specchia, ne trasferisce ogni nota musicale, ogni variazione, ogni spartito, di opera celeste. Ha già constatato che perfino il volo è un mezzo espressivo, combinato con il canto. Una necessità non pratica, dove si fonde un’arte non premeditata: non diversamente dalla skylark di Shelley nel regno del cielo blu: like a cloud of fire… e in sintonia con l’Elogio degli uccelli di Leopardi.

«In genere, per quanto il loro canto sia una potente fonte di ispirazione, si ritiene che gli uccelli siano privi dell’anima immortale che attribuiamo agli esseri umani. Tra coloro che percepiscono nei canti degli uccelli una forte carica spirituale dev’esserci anche chi si pone la seguente domanda: come potrebbe il canto di un uccello riuscire a commuovere l’animo umano se il suo spirito, che viene rilasciato nel canto, non fosse un tutt’uno con il divino?».

Le esperienze di Len Howard aprono acquisizioni e domande, sulle quali i biologi e gli etologi non hanno smesso di investigare, sebbene, come prevedeva Huxley, nessuno avrebbe ammesso il valore della sua ricerca: la trasmissione del pensiero automatica, come dimostra il volo degli storni, simile alla coralità, al fare musica all’unisono, magari improvvisando, e anche senza direttore d’orchestra (un personale ricordo, sapendo che Sargent fu stimato il miglior direttore di cori in assoluto); la superiore velocità del loro cervello; la diversa percezione del tempo; la capacità di riconoscere le espressioni e le voci, e di imitarle; quelle matematiche (la cinciallegra Star che capisce il numero di battiti, li riproduce, fino a otto, scomponendoli: ciò che fa pensare ai riscontri, sebbene diversi, che leggiamo oggi nel Pulcino di Kant di Giorgio Vallortigara, sulle doti innate); le possibilità di apprendimento che portano a variare il display, ossia il modello dei comportamenti.

Tra le acquisizioni c’è quella per cui le femmine scelgono il maschio: non il più forte, il cosiddetto dominante, ma quello che a loro piace. Un problema che riguarda anche l’evoluzione della specie. Darwin privilegiò l’evoluzione estetica, sopra quella adattativa. Di recente l’ha ripresa l’ornitologo Richard O. Prum, nell’Evoluzione della bellezza, sostenendo l’autonomia e libertà di scelta femminile. Forse Star, la cinciallegra preferita di Howard, non sceglie il più bello né il più forte, ma quello che a lei, imperscrutabilmente «piace», in base al misterioso criterio erotico-estetico che Saffo aveva già stabilito 2500 anni fa. Howard intuiva che le trasformazioni millenarie delle esposizioni-esibizioni erotiche ed estetiche, dove si deve distinguere l’«autoformazione» dall’«autopresentazione», secondo Adolf Portmann (che sollevava il problema in Forme viventi, 1965), corrispondono alla precisa capacità dell’animale di esprimersi, di darsi forma: quanto Goethe chiamava Bildung, e non Gestalt.

Resta di lei una ripresa della Bbc, del 1961. Howard, la testa coperta di una cuffietta d’angora chiara legata al sottogola, perché gli uccelli non s’impiglino nei suoi capelli, parla della comprensione reciproca tra lei e gli uccelli, di cui sa bene la mortalità. Una primavera ingaggiò una battaglia – persa – perché il Comune non potasse le siepi distruggendo i nidi, prima dello svolo dei nidiacei. Le poche siepi che restano nelle nostre campagne, sempre, proprio in primavera, sono scerpate mostruosamente. Il simbolo della provvidenza affidata solo al cielo, come i fiori dei campi (Matteo 6, 26-30), la sua forza angelica, distrutta.

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