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L’emendamento ritirato. Chi non vuole l’Istituto della ricerca marina

L’emendamento ritirato. Chi non vuole l’Istituto della ricerca marina

Il caso Francia, Inghilterra, Spagna e Grecia hanno un unico istituto nazionale di ricerche marine. In Italia, abbiamo 10 enti con una assurda moltiplicazione di infrastrutture

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 5 dicembre 2020

Nella mia ultratrentennale carriera da ricercatore del mare e per il mare ho avuto la possibilità, e la fortuna, di conoscere moltissimi enti di ricerca italiani. A cominciare dal Cnr di Messina (allora Istituto Talassografico), proseguendo con l’Istituto centrale per la ricerca applicata al mare (l’Icram oggi Ispra). Sono stato quindi delegato nazionale della Commissione internazionale per lo studio del Mar Mediterraneo, poi nel consiglio di amministrazione dell’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale, e attualmente membro della Commissione nazionale scientifica per l’Antartide e, più recentemente, mi sono trasferito alla Stazione Zoologica «Anton Dohrn», per contribuire a creare il primo centro di ricerche marine in Calabria, la mia terra natale.

Non ho steso questo elenco di incombenze per illustrare la mia carriera, bensì per dimostrare di avere titolo per affermare che non esiste al mondo un sistema di ricerca così frammentato e disorganico come quello della ricerca marina italiana. E per denunciare la gravità di quanto è accaduto alla Camera nei giorni scorsi, dove, non si capisce per quale motivo, è stato ritirato dagli stessi presentatori, un drappello di deputati appartenenti più o meno a tutti i partiti della maggioranza, un emendamento al bilancio mirato proprio alla riunificazione in un unico istituto nazionale della ricerca marina.

Tutti i Paesi che hanno una politica di ricerca del mare – dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Spagna alla Grecia – hanno un unico istituto nazionale di ricerche marine. Noi, in Italia, 5 enti/istituti che fanno solo ricerca marina e altrettanti che ne sviluppano solo alcuni aspetti, così producendo una assurda moltiplicazione di infrastrutture, oltre che una insensata competizione tra istituti, che impedisce l’acquisizione, e la gestione, di strumentazioni adeguate la cui spesa non può esser sostenuta da un singolo ente.

Come se non bastasse, negli ultimi 10 anni, la situazione si è ulteriormente deteriorata: dalla tragedia della Nave Urania del Cnr, che si è ribaltata nel cantiere di Livorno, fino alla svendita della Nave Universitatis, acquistata con fondi nazionali per diversi milioni di euro e rivenduta, per l’insostenibilità delle spese di gestione a privati. Ora quella nave, acquistata e finanziata interamente con fondi pubblici italiani, naviga in acque americane. Recentemente l’Ogs ha acquistato una nave usata norvegese per la ricerca polare, ribattezzata Laura Bassi, ma temo che sarà assai difficile mantenerla dati gli attuali costi di gestione di queste grandi infrastrutture.

Siamo sempre stati un Paese dai mille campanili, ma la mancanza di una strategia complessiva nazionale per la ricerca marina rischia di limitare fortemente la crescita del paese nel campo della pesca, delle energie rinnovabili e delle materie prime, della protezione ambientale, del turismo, dello sviluppo tecnologico, del supporto a imprese nazionali che operano nel settore del mare.

Per svolgere ricerche competitive a livello internazionale servono grandi navi e tecnologie avanzate, simili a quelle per la ricerca spaziale. Ma tutta la ricerca marina italiana ha meno ricercatori e riceve meno fondi di quanto non riceva, da solo, l’istituto Nazionale di Astrofisica.

In Italia esiste una assoluta necessità di fare squadra, ma non siamo mentalmente capaci di ragionare in modo sistemico. Preferiamo avere ognuno il proprio orticello, e coltivare interessi personali. Puntare sulla ricerca marina permetterebbe di valorizzare non solo la ricerca, ma tutta l’industria cantieristica e di sostenere lo sviluppo tecnologico di questo Paese. Senza una forte ricerca marina, e senza grandi infrastrutture, le priorità del nostro Paese rispetto all’uso sostenibile delle risorse del mare e la crescita blu saranno impossibili.

Per questo sono assolutamente favorevole alla costituzione di un unico ente di ricerca marina. I ricercatori marini italiani sono una grande famiglia divisa per ragioni storiche in Enti diversi che dovrebbero finalmente trovare una casa comune. Chi non lo vuole non agisce certo per mancanza di consapevolezza sui limiti causati dalla frammentazione, ma semplicemente in nome di inaccettabili logiche politiche regionali o, peggio, nel timore di perdere il proprio piccolo centro di potere.

L’Italia ha il dovere di cogliere le occasioni di crescita, occupazione e sviluppo offerte dall’economia blu, non può continuare a rimanere ai margini della competizione internazionale a causa della miopia del nostro sistema politico. Non bisogna perdere l’occasione offerta dal Recovery Plan europeo di investire in una delle risorse chiave per lo sviluppo sostenibile del Paese.

Questo Governo dovrebbe rendersene conto, convocare e coordinare un tavolo ministeriale e avviare un processo di riforma e razionalizzazione della ricerca marina italiana in grado di far fronte alle sfide del futuro e a un decennio, quello 2021-2030, che le Nazioni Unite hanno dedicato alla «Scienza degli Oceani per uno Sviluppo Sostenibile» e che l’Italia si appresta ad affrontare con ricercatori che se pur di qualità, sono divisi, demotivati e privi di strumenti.

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