L’«Elvis rosso» che voleva essere Víctor Jara
Storie Le tante vite e la strana fine di Dean Reed, che lasciò gli Usa per diventare rockstar al di là del Muro di Berlino. Passando per il Cile di Allende e il western all’italiana. Una carriera bruciata in "60 minuti"
Storie Le tante vite e la strana fine di Dean Reed, che lasciò gli Usa per diventare rockstar al di là del Muro di Berlino. Passando per il Cile di Allende e il western all’italiana. Una carriera bruciata in "60 minuti"
“Elvis rosso”, lo chiamavano. Qualcosa a metà tra Forrest Gump e un Manchurian Candidate. Eroe americano, traditore, disertore, cowboy redento, patriota, agente segreto, doppiogiochista… insomma, un puzzle difficile da decifrare. Da Mosca a Pechino, tutti conoscevano questo yankee che si era pentito di essere yankee, questo avventuriero nato in Colorado che aveva finito per scegliere il mondo dall’altra parte della cortina di ferro. Non capivano una parola delle sue canzoni, ma non importava.
Non potevano avere i Beatles, Frank Sinatra, Elvis Presley. Ebbene, avevano la loro copia. Forse più economica, meno affascinante, ma non importava. Un uomo che ha rinunciato a tutto per diventare un profeta del rock dall’altra parte del muro di Berlino.
Dean Reed nasce il 22 settembre 1938, 85 anni fa, lo stesso giorno in cui Hitler e il primo ministro britannico si incontrano per discutere il destino dell’Europa. Nasce a Wheat Ridge, una piccola città di cowboy nella periferia di Denver, il cuore più tradizionalista, cristiano, omofobo, anticomunista e conservatore dell’America profonda di quegli anni. L’America del Better Dead than Red (“meglio morti che rossi”). Suo padre, insegnante di liceo, sogna di vederlo in uniforme militare. Niente di più lontano dalle sue intenzioni. Come molti della sua generazione, sogna di diventare una star del cinema, e il Colorado degli anni ’50, tra ranch e cowboy, non è certo il luogo più adatto per realizzarlo. Così alla prima occasione parte per Hollywood. Appena arrivato a Los Angeles, inizia a prendere lezioni di recitazione. Presto viene ingaggiato per recitare in un paio di film e in alcune serie televisive. Non funziona.
Però sa cantare. La Imperial Records gli dà una possibilità. Ma anche questa volta non sembra funzionare. Poi ci prova la Capitol Records. È la sua ultima possibilità. Vogliono trasformarlo in un idolo per adolescenti. Alto, atletico, biondo, insomma, il ragazzo di buona famiglia, un po’ ingenuo, che arriva in città. Ma ancora una volta il successo non arriva. Il problema è che, come molti della sua generazione, cerca di imitare Elvis. E di Elvis ce n’è uno solo… almeno a quelle latitudini. Proprio quando sta per abbandonare tutto e tornare alle sue lezioni di meteorologia all’università, accade qualcosa di inaspettato. Our Summer Romance, passato totalmente inosservato, diventa un successo senza precedenti in America Latina. Quanto basta per prendersi un passaporto, comprare un biglietto e andare a vedere. È la primavera del 1962 e Dean Reed atterra a Santiago del Cile.
L’America Latina rappresenta per lui una scoperta affascinante. È l’anno della crisi dei missili di Cuba. In realtà Dean Reed non ha la più pallida idea di dove si trovi quest’isola esotica o chi siano questi ragazzi con barba e fucile chiamati Fidel Castro e Che Guevara. Ma c’è qualcosa in loro che presto inizierà ad affascinare questo ragazzo dai capelli biondi e con sorriso smagliante da attore di soap opera. Bisogna cambiare l’ordine del mondo, combattere contro l’ingiustizia. È ciò che il giovane Dean impara dal suo viaggio in America Latina. Un continente in cerca di riscatto in nome della libertà, dell’emancipazione e dell’autodeterminazione dei popoli. Allo stesso tempo, inizia ad ascoltare Woody Guthrie, Pete Seeger, Joan Baez. Non ha mai sentito la parola “ideologia prima d’ora”. Ma è curioso. I suoi amici cileni gli parlano di Karl Marx e di una cosa chiamata socialismo. Decide quindi di stabilirsi in Cile. Questa decisione cambierà la sua vita per sempre.
Incontra Neruda, si unisce con entusiasmo alla campagna elettorale di Salvador Allende nel 1964 e conosce Víctor Jara. Per Reed, questo incontro sarà come una illuminazione. E l’ammirazione si trasforma presto in identificazione totale. Nel frattempo il Partito comunista cileno, che ha buoni contatti con il mondo culturale di altri paesi, lo spedisce in Argentina per una tournée. Tutti si innamorano di lui.
Nel 1965 viene inviato come delegato al Congresso Mondiale per la Pace di Helsinki. Si dice che durante un momento di forte tensione, per evitare una rissa tra alcuni delegati, Dean Reed sale sul palco con la sua chitarra e inizia a cantare We Shall Overcome. In pochi minuti si ritrovano tutti lì ad applaudirlo, cantando le sue canzoni. Un americano socialista che pensa ai diritti dei popoli e alla pace… Il delegato sovietico non si lascia scappare l’occasione e lo invita a Mosca.
Al suo ritorno in Argentina il clima politico è cambiato. La dittatura di Juan Carlos Onganía lo etichetta come “agente sovietico”, invitandolo ad abbandonare il Paese.
È il 1968. Mentre le strade di Parigi si riempiono di studenti, mentre Praga cerca di vivere la sua effimera primavera, mentre l’uomo (bianco e americano) sta per fare il suo primo viaggio sulla luna, Dean Reed e sua moglie Patricia decidono di trasferirsi a Roma. Lì, nasce la loro figlia Ramona «Guevara». In Italia, in un paio d’anni, Dean Reed partecipa a otto film. Instant movie, polizieschi, qualche commedia, ma soprattutto “spaghetti western” girati tra Spagna e Italia. Tutti a basso costo, film di serie B, gli stessi che, anni dopo, un regista come Quentin Tarantino avrebbe contribuito a riscattare. Film in cui interpreta ogni tipo di ruolo. Dal domatore di cavalli al cacciatore di taglie, passando per il cercatore d’oro, il pirata, il vecchio rapinatore di diligenze e banche, il pistolero e il giustiziere. I titoli sono tutto un programma. Tra questi: Buckaroo (Il winchester che non perdona), I nipoti di Zorro (con Franco e Ciccio), Dio li crea… io li ammazzo, Mitra Baby Face, Tre per uccidere fino ad arrivare a Indio Black, sai che ti dico: sei un gran figlio di… (con Yul Brynner) e Storia di karate, pugni e fagioli.
Nel 1970 decide di tornare in Cile per sostenere la nuova campagna presidenziale di Salvador Allende. Arrivato a Santiago, convoca la stampa davanti all’ambasciata statunitense. Si presenta con una bandiera americana e un secchio d’acqua, per lavarla pubblicamente a favore di telecamera. Viene arrestato. Lo rilasceranno, secondo quanto racconterà lo stesso Reed, grazie all’aiuto di Pablo Neruda. Reed passerà tutta la vita a ricordare questo evento come l’atto fondante della sua nuova vita di rivoluzionario. Allende, eletto presidente quattro giorni dopo, lo invita al palazzo presidenziale de La Moneda per ringraziarlo. È la consacrazione. Torna a stabilirsi in Cile. Dopo l’11 settembre 1973, come molti altri, è costretto ad abbandonare il Paese.
Inizia così la sua seconda vita. Impara il tedesco, si innamora, si sposa (finirà per sposarsi tre volte), recita in altri quindici film e in uno di questi, con quindici anni di anticipo su Balla coi lupi, interpreta il soldato dell’esercito che, pentito per i massacri degli indiani, sceglie di abbandonare la civiltà occidentale per andare a vivere con i nativi (Fratelli di sangue, 1975). Dopo la morte di Víctor Jara, assassinato dalla dittatura di Pinochet, Dean Reed farà di tutto per proclamarsi suo erede.
Nel 1978 scrive, dirige e interpreta El cantor, un improbabile biopic dedicato alla vita del cantautore cileno. Presentato al Festival dell’Avana, il film, pieno di bulgari biondi che interpretano cileni cantando slogan in tedesco, vede Reed interpretare il ruolo di Víctor Jara, muovendosi a favore di camera come se fosse Elvis Presley. La vedova di Jara non lo perdonerà mai. Al tempo stesso produce 13 album e va a cantare in una trentina di paesi del mondo socialista. I russi lo adorano. Canta di tutto, da Bella Ciao a We Shall Overcome, dall’Inno alla gioia a El pueblo unido jamás será vencido.
Per il pubblico dei paesi dell’orbita socialista è come avere una copia dei grandi miti occidentali, vietati in patria, in un formato minore, finalmente alla loro portata. Dean Reed è gentile, bello, persino rivoluzionario, quanto basta per affascinare tutti. Ha qualcosa di John Wayne e Robert Redford, e sa anche cantare. Un cowboy romantico che parla di rivoluzione e pace. Fa tutto ciò che un artista russo non fa. Salta, si muove, scende tra il pubblico, balla. Vuole essere una rockstar.
Bisogna ricordare come erano l’Unione Sovietica e i paesi del campo socialista negli anni ’70, al culmine della Guerra Fredda. La scrittrice premio Nobel Svetlana Alekseyevich lo sintetizza così: «Vivevamo un tempo di seconda mano». Il mondo era diviso in due blocchi che si ignoravano a vicenda. O almeno questo era quello che volevano i politici. In realtà, la gente era curiosa. Forse più loro che noi. È in un contesto simile che va interpretato un fenomeno come quello di Dean Reed.
Era come avere Elvis o i Beatles, senza sentirsi in colpa per aver tradito uno Stato che li considerava espressione di un intrattenimento effimero, frivolo, piccolo borghese. Disporre di questo americano, che aveva deciso di lasciare il suo Paese per vivere tra i socialisti, proprio come il soldato che lascia l’esercito per vivere tra gli indiani, li mandava in un brodo di giuggiole. Non avevano Elvis, ma si accontentavano della copia. In cambio dei suoi servizi al Partito (vale a dire partecipare a tournée infinite, interviste televisive e diversi film) Dean Reed avrà tutto: casa, denaro e soprattutto quella libertà di viaggiare che agli altri era vietata.
Ma con il passare del tempo, le cose cominciano a cambiare. All’inizio degli anni ’80 Dean Reed si ritrova bloccato in un sogno che sembra già un po’ anacronistico. La Piazza Rossa inizia timidamente ad aprirsi. Il mondo che Dean Reed rappresenta non è più così esotico. La Perestroika, Gorbaciov, l’arrivo del rock… Probabilmente inizia a rendersi conto di essere stato uno strumento in mano al Pcus.
Farà di tutto per recuperare il mondo che lo ha nutrito fino ad allora. Va ovunque per difenderlo, anche nel cuore del nemico, cioè casa sua. Viene invitato a partecipare a “60 Minutes”, uno dei talk show più popolari della CBS. L’anno è il 1986. Quei sessanta minuti si convertiranno per lui in un boomerang, la peggiore arma contro sé stesso. La situazione gli sfugge di mano. Nell’intervista difende l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, il Muro di Berlino, equipara Reagan a Stalin, difende la lotta palestinese, si fa vedere in foto con Arafat, con i sandinisti in Nicaragua, con una chitarra in una mano e un kalashnikov nell’altra, sempre sorridente. Un disastro. È un traditore. È diventato uno strumento del regime, senza rendersene conto, o forse sì, ma è troppo tardi. Il Partito alla fine non gli permette di rinnovarsi, deve rimanere intrappolato nell’immagine che gli hanno cucito addosso. Ha perso la sua famiglia, i suoi affetti più cari, in nome di un sogno che gli si sta rivoltando contro.
Ne valse la pena? In realtà, la storia di Dean Reed, se la guardiamo da un altro lato, è forse diversa. Innanzitutto, va detto che non rinunciò mai alla cittadinanza statunitense. Non prese mai neppure la tessera del Partito Socialista. Al contrario, non c’è stato un solo anno in cui il cittadino Dean Reed non abbia presentato la dichiarazione dei redditi negli Stati Uniti. Come ha potuto viaggiare così liberamente in un mondo così diviso? «Ci sono solo due giorni buoni a Berlino Est -confesserà a un amico. Quando possiamo mangiare carne… e quando guardiamo Dynasty in televisione». Del resto, per tutta la vita non ha mai smesso di sognare di essere una rockstar. Nonostante le sue critiche al Capitalismo, con la sua stessa vita non fece altro che esaltare quella società dello spettacolo che gli aveva permesso di essere ciò che nel suo Paese non era riuscito a essere.
Chi lo conosceva sapeva che non aveva mai perso il sogno di tornare a casa. Aveva organizzato tutto. Era da anni che preparava il suo ritorno trionfale. Nell’autunno del 1985 era sul punto di realizzarlo. Dopo vent’anni di assenza dalla sua città natale in Colorado, torna a casa per una settimana. L’occasione è la presentazione di American Rebel al Denver Film Festival. Un documentario a lui dedicato, girato dal suo amico Will Roberts. Doveva essere la sua consacrazione definitiva. Dean Reed organizza tutto. Mobilita i suoi amici d’infanzia. Progetta di registrare un album. Dà istruzioni per creare un fan club, di cui sua madre sarà la presidentessa onoraria. Propone di chiedere al Festival di organizzare una parata a cavallo con una delegazione ufficiale che lo accolga al suo arrivo all’aeroporto e lo conduca al Campidoglio per essere ricevuto dal Governatore. Vuole pubblicare la sua autobiografia e magari fondare un partito e candidarsi alle elezioni. «Con Reagan ha funzionato…», dice. È un delirio. Doveva essere il suo ultimo atto, l’ultimo paradosso di un uomo che per tutta la vita non ha fatto altro che inseguire il successo e cercare di ottenere l’approvazione del padre, che aveva tanto deluso.
Sono passate appena sei settimane dalla sua apparizione a “60 Minutes”. È il 17 giugno 1986. Una donna che cammina nella periferia di Berlino Est si imbatte nel cadavere di un uomo che galleggia in un lago. Dean Reed è morto. Aveva 47 anni. Incidente, così dice la polizia. Ma molti iniziano a dubitarne. Sei mesi dopo spunta una lettera d’addio che le autorità dicono aver trovato nella sua automobile. Suicidio. Quindici pagine in cui chiede scusa a tutti. Alla moglie, alla famiglia, al segretario generale del Partito, per le sue azioni che avrebbero potuto dare una cattiva immagine alla DDR. La nota è stata inserita negli archivi di Stato come informazione classificata, che è riapparsa solo dopo la riunificazione tedesca. Troppo facile. Chi penserebbe di suicidarsi a pochi giorni da realizzare il sogno di tornare a casa dopo venti anni di assenza? In quella maniera poi (Dean era un abile nuotatore e quel lago lo conosceva benissimo, dato che era proprio davanti casa sua).
E poi c’è un altro dettaglio. L’autopsia indica che è morto il 12 giugno. Il corpo è stato trovato il 17 giugno. In altre parole, il corpo è rimasto sott’acqua per cinque giorni, ma i polmoni sono praticamente asciutti. E poi un’altra cosa. Prima di lasciare Berlino Est, Dean Reed stava per realizzare un altro sogno. Girare il suo capolavoro. Scritto, diretto e interpretato da sé stesso. Il titolo sarebbe stato Bloody Heart. Sognava di conquistare Hollywood. Un film dedicato alla rivolta della riserva indiana di Wounded Knee repressa dall’FBI nel 1973, negli stessi luoghi in cui, quasi cento anni prima, nel 1890, un gruppo di Sioux Lakota venne sterminato dall’esercito degli Stati Uniti d’America. Doveva essere girato in Romania, con un enorme dispiego di mezzi e migliaia di comparse. Cominciarono così a circolare voci e teorie su un possibile complotto. Secondo alcuni, Dean Reed era stato per tutta la vita un agente della CIA, secondo altri della STASI, secondo altri ancora del KGB.
Si parlò di tutto. Anche di una cassetta di sicurezza contenente circa 300 mila dollari che Reed avrebbe custodito segretamente a Berlino Ovest. Altri ancora sostennero che era a conoscenza di segreti sullo scandalo Iran Gate (sulla vendita di armi statunitensi all’Iran e poi vendute ai Contras in Nicaragua). Secondo altri ancora, tra il 1976 e il 1978, Dean Reed aveva lavorato per il dipartimento internazionale della STASI. Per questo motivo riuscì sempre a spostarsi liberamente da una parte all’altra della cortina di ferro. È quanto sostiene il principale canale televisivo russo Rossija in un documentario, senza però in realtà presentare alcuna prova.
La sua terza moglie, l’attrice tedesca Renate Blume, finirà per credere al suicidio. C’erano problemi con il film, sembra che alla fine non sarebbe stato realizzato. La coppia era in crisi, perché Dean voleva tornare negli Stati Uniti. Anche la sua biografa Reggie Nadelson, in un bel libro intitolato Comrade Rockstar (“Compagno rockstar”), finirà per credere al suicidio. Ad altri, sostenitori del complotto, piace credere che, come Elvis, Hitler, gli evasi da Alcatraz, l’Eternauta ed ET, sia ancora vivo, sotto falso nome, in qualche fattoria sperduta alla fine del mondo.
Per saperne di più
Biografia:
Reggie Nadelson, Comrade Rockstar: the Life and Mystery of Dean Reed the All-American Boy Who Brought Rock ‘n’ Roll to the Soviet Union, Walker & Company, 2006.
Documentari:
American Rebel: The Dean Reed Story (dir. Will Roberts, US, 1985)
Gringo Rojo (dir. Miguel Ángel Vidaurre, Chile, 2016)
Red Elvis, Cold War Cowboy (Sky UK, 2022)
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