L’elefante sulla spiaggia
Andava un omone grosso e abbronzato, con una gamba d’elefante. Era proprio una gamba d’elefante, tozza, come un tronco, senza nulla che sembrasse gamba a scendere giù dalla coscia. Niente polpaccio, niente caviglia, nessun piede. Noi guardavamo senza guardare, come ci avevano insegnato a fare le mamme di fronte alle cose che assieme ci inorridivano e facevano curiosità.
Andava per la spiaggia, al tramonto, come a voler tornare verso il paese e, dopo che era passato, ci giravamo e la guardavamo bene, quella gamba d’elefante, lui enorme, sopra, come in una storia di Conrad, e lì sotto senza tallone, senza dita. Solo che non s’era in una storia di Conrad bensì su una spiaggia popolare del Mediterraneo basso, un pezzo libero e un pezzo lido, sì: ma di quei lidi antichi senza musica, senza niente, senza manco le docce, solo un rubinetto per sciacquarsi i piedi.
Ma l’omone cosa sciacquava, sotto il rubinetto?
Era un marinaio, era imbarcato – ci spiegò il dottore del paese sistemando la scala sotto il fico – mantieni! Era imbarcato, una volta si prendevano questi parassiti a bordo, come dei vermetti che camminavano sotto pelle, e se non li curavi subito non c’era più niente da fare.
Noi si andava scalzi, scottandoci qua e là, correndo veloci all’ombra, o a raffreddarci le piante dei piedi in certe pozze profumate dove le vecchie avevano tirato secchiate di candeggina, fuori dai cortili. E poi si ripartiva. Erano tappe di un percorso immaginario che poteva portare in luoghi conclusi, un bar, la rimessa delle biciclette, il molo. Di lì poi tutto finiva, la strada o il paese dei nonni da cui si tornava dopo un inverno nei banchi, o l’isola. Bolle, tagli, scottature, si zoppicava un poco e poi si ripartiva senza mica contare i giorni, facendosi disinfettare bene per la paura dei vermetti.
PASSATI GLI ANNI l’estate era rimasta una questione di piedi, però di piedi adulti, costretti in scarpe, che finalmente tornavano all’aria. Infradito, ciabatte, sandali, zoccoli, si poteva andare anche a far la spesa così come si era vestiti per la casa. Il caldo era un lasciapassare. I piedi si curavano, si mettevano a mollo nelle bacinelle, ci si facevano laccare le unghie dall’estetista o dall’amica. Ci si guardava i piedi l’un l’altro, nascevano anellini per le dita e cavigliere. Un’amica aveva collezionato tutte le foto dei piedi che ci eravamo mandate su una chat, e ne aveva fatto un cartoncino d’auguri. I piedi erano inaspettate mappe di erotismo. Si poteva tirare fuori un piede, da una ringhiera o sul davanzale di una finestra.
Mettere i piedi sul cruscotto al posto accanto a quello di guida scendendosene un poco sul sedile. I piedi si erano fatti un gioco raffinato: se la pressione scendeva, per il gran caldo, buttavi giù i sandaletti e li stendevi addosso all’amante con cui ti accompagnavi.
Qualcosa – ma cosa? – si era perduto.
Finché è ricomparso, invecchiati tutti noi: lui, l’omone.
Erano passati vent’anni non ci avevo mai più pensato e anzi – a pensarci ora – l’avevo dato per morto. Invece, tornando su quel pezzo di spiaggia popolare, verso le sedici, con il sole basso e il maestrale levato: ho visto nella sabbia un piede umano e un’impronta di elefante.
Impronta di piede impronta di elefante. Impronta di piede impronta d’elefante. Ho seguito le tracce, per tutta la spiaggia l’ho cercato.
E poi le impronte sono sparite a riva, cancellate dall’acqua: allora ho guardato sulla linea dell’orizzonte e l’ho visto. Elegante che sfilava sul mare, lucido, abbronzato, bellissimo senza gravità, senza più passi disuguali, ricongiunto.
Sono rimasta a guardarlo lì che andava libero felice senza affanno, senza zoppia, e ho capito cosa si era perduto: il senso di animale di ciascuno, in lui così evidente, in noi messo a tacere.
Sono rimasta così, seduta sulla sabbia con i miei piedi scomparsi dentro due buche uguali, sprofondati a ogni onda sempre di più, fino a quando il sole è sceso e tutto si è fatto oro e rosso. E quando l’omone ha cominciato a tornare verso riva mi sono alzata e sono andata, prima che uscisse, per non guardare: come ci avevano insegnato a fare le mamme.
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